di Gaetano Vallini
Tutto cominciò con un calcio al pallone a Robben Island. Lui stava rinchiuso nella cella 466 e da lì vedeva allenarsi la futura classe dirigente del Sud Africa
Sud Africa, 1995. Il Paese sta vivendo un passaggio cruciale della sua storia. L’ombra dell’apartheid, con il suo drammatico carico di odio e di vendette, ancora incombe pesantemente sui rapporti tra le persone. Nelson Mandela, primo presidente di colore della Nazione ma soprattutto leader carismatico della “sua” gente, sa che finché non si giungerà a una piena riconciliazione non potrà esserci pace vera. Ripete spesso che il perdono libera l’anima, cancella la paura e per questo è un’arma tanto potente. Ma sa che non è facile convincere di questo chi ha tanto sofferto. Ciononostante non si arrende. Ha bisogno di qualcosa che possa unire il popolo, è consapevole che occorre fare appello all’orgoglio nazionale. Sa che niente riesce a farlo come lo sport. Lo ha sperimentato, in piccolo, nella prigione di Robben Island. Ma ora ha bisogno di qualcosa di ben più grande. L’occasione gli si presenta con il campionato del mondo di rugby, la cui fase finale si svolgerà quell’anno proprio in Sud Africa. E lui non se la lascia sfuggire. Con il destino a favore.Così la finale della Coppa del mondo disputata all’Ellis Park Stadium di Johannesburg — la cui epica è narrata nel libro Ama il tuo nemico di John Carlin (Milano, Sperling & Kupfer, 2009) e nel film Invictus di Clint Eastwood (2009) — non è solo un’avvincente partita, ma un punto di svolta nella storia del Sud Africa. Un evento divenuto esperienza condivisa di un popolo fino ad allora separato: da una parte i neri, la maggioranza, poveri ed emarginati; dall’altra i bianchi, pochi, ricchi e potenti. Mandela riesce nell’impresa di far convergere il tifo sulla squadra degli Springboks, giunta inaspettatamente in finale, sostenuta fino ad allora solo dagli afrikaaners e odiata dai nativi, i cui colori verde e oro erano diventati il simbolo della segregazione.Intelligente e realista, Mandela mostra coraggio ma anche lungimiranza. Sorprendendo i suoi più stretti collaboratori, che lo consigliano di non occuparsi di quella squadra cara solo ai bianchi, procede per la sua strada, anche se ciò sembra contraddire la sua storia e quella dei suoi fratelli neri. E gioca le sue carte. Dissuade i dirigenti dell’African national congress dall’abolire la squadra degli Springboks e gli odiati colori. Quindi, cerca di convincere della bontà della causa il carismatico capitano della squadra, François Pienaar, e grazie a lui gli altri giocatori. E affida loro la missione: vincere la Coppa del mondo. Sportivamente una mission impossible, ma non meno del vero obiettivo: la pacificazione nazionale. Impresa sintetizzata nel motto «una squadra, un Paese».Ma a volte la storia sceglie vie inaspettate per scrivere alcune delle sue pagine migliori. Gli Springboks non solo arrivano sorprendentemente in finale, ma, giocando la partita della vita, contro ogni pronostico battono il favoritissimo squadrone neozelandese degli All Blacks. Il Sud Africa vince la Coppa del mondo di rugby, il presidente la sua battaglia, riuscendo nell’impresa di un’impensabile unità che è come un balsamo, sia pur leggero, per le ferite del passato e dà speranza nel futuro nonostante le tante incognite.
(©L'Osservatore Romano – 7 dicembre 2013)