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Mandela e lo sport che riconcilia. Una squadra e un Paese

Creato il 06 dicembre 2013 da Gaetano63

Mandela e lo sport che riconcilia. Una squadra e un Paese

di Gaetano Vallini

Tutto cominciò con un calcio al pallone a Robben Island. Lui stava rinchiuso nella cella 466 e da lì vedeva allenarsi la futura classe dirigente del Sud Africa 

 

Sud Africa, 1995. Il Paese sta vivendo un passaggio cruciale della sua storia. L’ombra dell’apartheid, con il suo drammatico carico di odio e di vendette,  ancora incombe pesantemente sui rapporti tra le persone. Nelson Mandela,  primo presidente di colore della Nazione ma soprattutto leader carismatico della “sua” gente, sa che finché non si giungerà a una piena riconciliazione non potrà esserci pace vera. Ripete spesso che il perdono libera l’anima, cancella la paura e per questo è un’arma tanto potente. Ma sa che non è facile convincere di questo chi ha tanto sofferto. Ciononostante non si arrende. Ha bisogno di qualcosa che possa unire il popolo, è consapevole che occorre fare appello all’orgoglio nazionale. Sa che niente riesce a farlo come lo sport. Lo ha sperimentato, in piccolo, nella prigione di Robben Island. Ma ora ha bisogno di qualcosa di ben più grande. L’occasione gli si presenta con il campionato del  mondo di rugby, la cui fase finale si svolgerà quell’anno proprio in Sud Africa. E lui non se la lascia sfuggire. Con il destino a favore.Così la finale della Coppa del mondo disputata all’Ellis Park Stadium di Johannesburg   — la cui epica è narrata nel libro Ama il tuo nemico di John Carlin (Milano, Sperling & Kupfer, 2009) e nel film Invictus di Clint Eastwood (2009) — non è solo un’avvincente partita, ma un punto di svolta nella storia del Sud Africa. Un evento divenuto esperienza condivisa di un popolo fino ad allora separato: da una parte i neri, la maggioranza, poveri ed emarginati; dall’altra i bianchi, pochi, ricchi e potenti. Mandela riesce nell’impresa di far convergere il tifo sulla squadra degli Springboks, giunta inaspettatamente in finale, sostenuta fino ad allora solo dagli afrikaaners e odiata dai nativi,  i cui colori verde e oro erano diventati il simbolo della segregazione.Intelligente e realista, Mandela mostra coraggio ma anche lungimiranza. Sorprendendo i suoi più stretti collaboratori,  che lo consigliano di non occuparsi di quella squadra cara solo ai bianchi, procede per la sua strada, anche se ciò sembra contraddire la sua storia e quella dei suoi fratelli neri. E gioca le sue carte.  Dissuade i dirigenti dell’African national congress dall’abolire la squadra degli Springboks e gli odiati colori. Quindi, cerca di convincere della bontà della causa  il carismatico capitano della squadra, François Pienaar,  e grazie a  lui gli altri  giocatori. E affida loro la missione: vincere la Coppa del mondo. Sportivamente una mission impossible, ma non meno del vero obiettivo: la pacificazione nazionale. Impresa sintetizzata nel motto «una squadra, un Paese».Ma a volte la storia sceglie vie inaspettate per scrivere alcune delle sue pagine migliori. Gli Springboks non solo arrivano sorprendentemente in finale, ma, giocando la partita della vita, contro ogni pronostico battono il favoritissimo squadrone neozelandese degli All Blacks. Il Sud Africa vince la Coppa del mondo di rugby, il presidente la sua battaglia, riuscendo nell’impresa di un’impensabile unità che è come un balsamo, sia pur leggero,  per le ferite del passato e dà speranza nel futuro nonostante le tante  incognite.

Mandela e lo sport che riconcilia. Una squadra e un Paese
Eppure Mandela, boxer da giovane, tra gli sport di squadra amava il calcio. Ma, anche in questo caso, da un punto di vista politico  non fu una passione infruttuosa. Sebbene durante la sua lunga prigionia a Robben Island non gli fu mai concesso di giocare, da dietro le sbarre della cella 466 non si perse una sola delle partite disputate nell’improbabile campo del penitenziario. Perché quel singolare campionato iniziato alla fine del 1967  con una palla di stracci e con le porte fatte di assi inchiodate e reti da pesca, divenne una palestra di vita per i detenuti, tutti prigionieri politici.  Avevano impiegato tre anni, e subito non poche punizioni, per ottenere il permesso di giocare. Ma quando partirono, fecero le cose seriamente, così da fondare diverse società sportive, con tanto di dirigenti, e una federazione, la Makana Football Association, dal nome del condottiero xhosa esiliato sull’isola nel 1819 per aver sfidato il potere coloniale, poi ucciso in un tentativo di fuga. A Robben Island il calcio andò oltre il fatto sportivo; fu una vera e propria scuola di politica. I detenuti iniziarono a collaborare mettendo da parte le divisioni. Ad esempio, per ottenere maglie, scarpe e cibo adeguato allo sforzo atletico intavolarono una serrata trattativa con le autorità. Erano piccole vicende, insignificanti si direbbe, ma fu su quell’improvvisato  campo di terra battuta  che si formò la futura classe dirigente del Sud Africa, quella che governò  una volta  abbattuto l’apartheid. Basta guardare i nomi  di quanti a vario titolo parteciparono a quei campionati: tra gli altri,  Jacob Zuma, anch’egli diventato presidente, Tokio Sexwale,  ministro, e Dikgang Moseneke,  vicepresidente della Corte costituzionale. Anche se dovette accontentarsi di essere soltanto il più illustre  dei tifosi, Mandela capì la portata di quell’esperienza. Comprese cioè che quelle erano molto più di semplici  partite di calcio (More than just a game è infatti il titolo del film del 2007 che racconta questa storia); erano il terreno fertile da cui sarebbe fiorita la nuova nazione. Quel Sud Africa che nel 2010 poté ospitare, primo Paese del continente, un campionato mondiale di calcio. E allora non è esagerato dire che forse tutto iniziò a Robben Island con un calcio a un pallone.
(©L'Osservatore Romano – 7 dicembre  2013)


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