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L’età di mezzo è, specialmente nella sua dimensione femminile, una
linea d’ombra che il cinema ha visitato con una predilezione che è
sempre stato sintomo di modernità. Assieme a questa la performance di
attrici che nell’interpretare donne sull’orlo della crisi hanno
trovato la maniera di esprimere anche il proprio momento personale.
Chissà se anche Julia Roberts, alle prese con il passare del tempo e
con una seconda parte di carriera ancora da definire, ha intrapreso
questa nuova avventura con le stesse aspettative.
Di certo il personaggio di Liz Gilbert, esponente di un upper class
alle prese con le conseguenze di una vita immolata al decoro sociale
ed improvvisamente catapultata nel vuoto di quella costruzione, le
calza a pennello soprattutto nella similitudine con una condizione di
raggiunto benessere che rischia di mandare in crisi di astinenza un
umanità abituata a ragionare per obiettivi. Accade così che Liz, nel
mezzo di una vita apparentemente felice divorzi dal marito ed
intraprenda un viaggio attraverso i continenti alla ricerca
dell’equilibrio perduto. Rigorosamente declinate secondo le azioni del
titolo, Italia, lIndia e Bali rappresentano altrettante tappe di un
iniziazione alla felicità che dovrà necessariamente passare attraverso
gioia e sofferenza.
Costruito come una guida della salute, “Mangia Prega Ama”, risulta
impeccabile nell’esposizione del proprio prodotto: scorci da
cartolina, città ripulite da qualsiasi forma di inquinamento,
ambientale ed umano, personaggi che parlano per slogan e soprattutto
una profusione di oggettistica che farebbe la felicità di qualsiasi
turista in cerca di un ricordo da portare a casa. Entra invece in
crisi quando deve dare sostanza ad un incipit che da solo potrebbe
rappresentare il manifesto di una nuova spiritualità. Ancora una volta
infatti è la cornice a rimanere impressa: l’alternanza dei paesaggi,
gli interni di certe abitazioni, la ritualità degli incontri e degli
addi, entrambi schematicamente inseriti all’interno dei diversi quadri
in cui il film è suddiviso, sono messi in risalto dalla cura della
confezione e dall’insistenza della macchina da presa, mentre il
percorso di rinascita della protagonista sembra appartenere al normale
decorso delle cose più che alla scoperta di una nuova sensibilità. Ed
è un vero peccato per il film e per la sua attrice, come Tom Cruise,
di cui pare sempre di più la versione femminile per il conformismo
delle scelte, preoccupata di non uscire dai limiti di una
trasgressione calcolata e definita all’interno del circuito di
omologazione hollywoodiano. Due grandi attori a cui non farebbe male
una crisi reale, di quelle che ti cambiano gli orizzonti. Ne
gioverebbero loro ed anche il pubblico
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