“Mani in seconda” era l’ordine perentorio che ci impartiva la maestra una volta che, dopo essere entrate silenziosamente in classe, dopo recitato le preghiere, in piedi sull’attenti di fianco al banco, finalmente ci sistemavamo sui sedili, aprivamo la ribaltina del tavolo per sistemare i quaderni e i libri, infilavamo il pennino nella cannuccia e la posizionavamo nell’apposita scanalatura vicina al calamaio, che una mano misteriosa aveva riempito fino all’orlo.
“Mani in seconda” e noi sedevamo impettite, bocca chiusa e sguardo fisso in avanti, con le dita intrecciate dietro la schiena.
Ma l’immobilità durava poco: eravamo una trentina di bambine, tutte vestite con il grembiulino bianco e il fiocco azzurro, allineate come tanti soldatini, addestrate alla disciplina, ma, dopo poco, con la coda dell’occhio cercavamo le amichette con cui scambiare sguardi complici e sorridenti, cercando di non farci contagiare dalla voglia matta di scoppiare in una risata irrefrenabile, perchè nessuna di noi avrebbe mai accettato di essere la prima a rompere il silenzio e l’immobilità.
Daniela, Lauretta, Wally, Marina erano lì, vicinissime a me, avremmo voluto chiacchierare, continuare i racconti che riempivano i nostri pomeriggi quando, con la scusa di fare i compiti insieme, ci trovavamo a casa dell’una o dell’altra e poi finivamo per inventare storie incredibili ed infinite attorno ai biscotti che la mamma di turno ci aveva portato per merenda, avremmo voluto chiacchierare, ma ce ne stavamo quiete, fermissime, impegnate in quel “gioco del silenzio” che la maestra ci sfidava ad osservare.
Poi la maestra ordinava “Mani in prima” e le nostre mani scivolavano sul banco, pronte ad afferrare la penna o la matita, pronte ad iniziare una nuova giornata di lavoro.