A volte la parola remake fa paura. Non è colpa del remake in se ma dell'uso indiscriminato che ne ha fatto l'industria cinematografica negli ultimi anni. Spesso e volentieri un copia-incolla senza senso, scritto male e girato peggio dal regista/manichino di turno, proprietà intellettuale di certi produttori senza scrupoli. Certe volte il remake però ha senso. Quando ad esempio prendi un film brutto e lo trasformi in un prodotto discretto, certe volte molto buono se non ottimo. Oppure quando cerca di riproporre una pellicola aggiornandola e magari migliorandola anche dal punto di vista "tecnico".Ricordo che quando sentii parlare per la prima volta del remake di Maniac storsi il naso. Non perché ritenga l'originale del 1980 un capolavoro, anzi, ma perché il film di Lusting è un capisaldo. Non perfetto ma innovativo, potente e riuscito, "brutto", sporco e cattivo. Riproporre un film cult è difficile e rischioso. Se poi a produrlo è quel bidone di Alexandre Aja, qui anche nelle vesti di sceneggiatore, allora il rischio cagata è dietro l'angolo. Però... a volte c'è un però, soprattutto quando parli di film...
Il però, in questo caso, è che questo Maniac è bello. Più bello dell'originale? Sì, forse, perché no. Diversi, indubbiamente. Allo stesso tempo uguali. E qui spunta il nome del regista, un certo Franck Khalfoun che potrebbe riservare delle sorprese, due film in croce e poi questo. E allora uno comincia a guardare Maniac versione 2012 perché magari in giro ne ha sentito parlare bene (una bellissima recensione qui) e si ritrova con gli occhi che gli sanguinano, tanto fa male. Basterebbe questo per salvarlo, sto film. Ma qui non ci si limita al compitino semplice semplice a cui molti registi di remake ci hanno abituato. Qui si va oltre.
Frank Zito è un serial killer di Los Angeles. Difficile a dirsi guardandolo in faccia, ma di notte un piccolo ragazzo spaurito si trasforma in uno spietato assassino che fa lo scalpo alle belle ragazze che ammazza preso da raptus omicida. Finché non incontra Anna.
Ci sono due cose da dire su questo film: la prima è che non segue pedissequamente i fatti narrati nell'originale, la seconda che dall'originale si distanzia immediatamente per tecnica e stile. In nessuno dei due casi si tratta di un difetto, anzi, il film di Khalfoun è perfettamente immerso nella contemporaneità che racconta, ci si confronta, se ne nutre. C'è internet, ci sono donne più disinibite che vanno in giro da sole, anche di notte. Non è più necessario andare a prostitute per procurarsi una scopata, basta un sito di incontri o una serata in un bar. Ma soprattutto, il male al giorno d'oggi si mimetizza, non si mostra palesemente se non un attimo prima di colpire. Non servono più volti scolpiti nella carne o corpi imponenti come quelli di guerrieri sanguinari. E allora Maniac diventa una pellicola che può affascinare (e trarre in inganno) più di quanto l'originale anni '80 avrebbe potuto fare con lo spettatore dell'epoca, portato ad indietreggiare istintivamente di fronte a cotanta brutalità esplicita.
Qualsiasi confronto con il film di Lusting sarebbe stato impietoso se, appunto, l'intento di Aja e soci fosse stato proprio quello di confrontarcisi. Invece l'allegra combricola (Aja, il socio Grégory Levasseur e Khalfoun) decide di far come se si ripartisse da zero: il soggetto è quello, la natura del lungometraggio diversa anche se non diametralmente. Ad esempio, la scelta degli attori: sarebbe stato facile, addirittura scontato, andare a prendere una faccia da criminale come quella di un Danny Trejo qualsiasi e proporla per il ruolo di Zito. E invece chi è l'attore che qui interpreta il ruolo dello psicopatico? Elijah Wood. Lui, l'hobbit, il nerd. Uno che dimostra in circa '90 minuti di potersi mettere sotto il braccio gran parte dei giovani (ma anche qualcuno dei vecchi) grandi attori cari a Hollywood. Poi c'è la decisione di escludere qualsiasi vittima assimilabile all'abusata figura del mignottone e cercare nei corpi e nei volti femminili la vera bellezza. Per una volta non storciamo il naso guardando donne bellissime sfilare sullo schermo perché è proprio quel tipo di donna che Frank cerca. E, tra l'altro, siamo a Los Angeles ragazzi. Anzi, quando vediamo comparire una sconosciuta Nora Arnezeder nel ruolo di Anna non ci stupiamo nemmeno che un angelo abbia deciso di scendere sul set del film: è perfetta ed è normalissimo che il nostro timido serial killer si innamori di lei al primo sguardo.
Ora, tutto questo forse non sarebbe servito a molto senza la scelta (di chi? Di Aja? O del regista?) di girare il film nel modo più affascinante e difficile che ci sia: quasi esclusivamente in soggettiva. Non quella traballante e a tratti totalmente inutile di un mokumentary qualsiasi. Qui parliamo di scelta formale, di tecnica, di bravura. La prima volta che vediamo Zito in faccia è attraverso una foto e quasi non ci crediamo. In seguito riusciremo ad avere sprazzi del volto del protagonista quasi esclusivamente attraverso specchi, finestrini, vetrine. E ogni volta sarà come una scossa elettrica, perché vedremo negli occhi del bravissimo Wood non solo la follia ma anche il dolore, la pena, la tragicità di un personaggio nei cui panni saremo costretti a restare, che non ameremo né giustificheremo mai ma che saremo comunque portati a compatire. Farà male, un po' come osservare attraverso il suo sguardo distorto un campionario sociale fatto di reietti e snob, artisti, poliziotti e gente comune. Il tutto filtrato dalle musiche di un non meglio specificato compositore e dalla fotografia di Maxime Alexandre, roba da rimanere ipnotizzati e affascinati.
Allora basta questo a rendere Maniac un "opera" con una propria dignità, slegata dalla pesante etichetta di remake? Sì, basta e avanza. Perché qui si tratta di una riproposizione pure e semplice che non nega l'originale ma non lo emula neanche. Si tratta della delicatezza con cui tutto viene rappresentato, raccontato intimamente come in un diario segreto. Quasi un lamento di dolore protratto fotogramma dopo fotogramma. Una delicatezza spietata che scivola nel sangue e nella violenza. A tratti sembra di essere in un noir metropolitano prima che l'orrore esploda violento facendoci lo scalpo. E restano gli occhi bagnati dalle lacrime di un uomo che non può salvarsi e non può essere salvato, di un mostro che non si rende conto di essere un mostro, di un bambino che vuole indietro la propria mamma e che cerca amore in un mondo dove l'amore è diventato un'optional. Resta un finale degno di Shakespeare o dei tragici greci. Resta qualcosa. Lo stesso non si può dire di tanta immondizia che al giorno d'oggi ci spacciano per cinema.