Kim Sølve, l’autore del nostro logo, mi ha girato questo suo album, che sarebbe la resurrezione di un progetto risalente a inizio anni Novanta, affine a quel giro di band che i giornali chiamavano avantgarde black (Ved Buens Ende ,Virus, Fleurety, Arcturus e non solo). La definizione, coniata forse da qualche musicista come sempre molto umile, serviva a differenziare questi gruppi da una maggioranza che all’epoca non deviava dalle regole del genere di Satyricon, Immortal, Darkthrone e compagnia. Manimalism, non a caso, è un disco che in potenza esisteva da anni, ma che è stato risuonato da quel giro di musicisti di cui per lungo tempo Kim ha curato le grafiche, quindi ecco Petter Berntsen/Plenum al basso e Bjeima alla batteria, entrambi transitati per quei Virus di cui pare Kim – qui chitarrista – scrisse anche qualche pezzo, pur non facendone mai parte. A interpretare i versi “decadentisti” del disco troviamo “Member 01” dei The Konsortium oppure tale Joachim Svebo, di cui poco si sa. Chiunque sia dietro al microfono, comunque, cerca la teatralità à la Simen Hestnæs, per capirci, che è un tratto comune di tutte le band del giro. L’album, di per sé, non è praticamente mai black metal, è piuttosto qualcosa che – per il binomio lentezza/pesantezza – può ricordare il doom, ma le chitarre (il plurale è voluto, Kim deve aver aggiunto parti in sede di registrazione) sono così dissonanti e oblique che una definizione così semplice è troppo vaga, a meno che, forzando moltissimo, uno non pensi alle storture di Clean Hands Go Foul dei Khanate, ma con dietro una sezione ritmica (jazzy?) più tecnica e intricata. Insomma, un oggetto misterioso anche vent’anni dopo la sua nascita, miglior complimento non so fare.
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