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Manuel Cohen: le voci issate sulle croci

Da Narcyso

Manuel Cohen, WINTERREISE, CFR 2012


Manuel Cohen: le voci issate sulle croci
Un modo per dire delle cose in movimento, delle cose che non durano, é ingabbiarle nella forma piú rigorosa possibile, nelle strutture del suono e del ritmo inventate dagli antichi per far intendere meglio il significato delle frasi e delle singole parole.
La parola in questo modo, assurge a lavoro, rapporto con la tradizione delle forme – quindi con la storia – e attrito con la materia incandescente del presente.
Questo presente é rappresentato, nel caso dell’opera di Manuel Cohen, dai conflitti sociali e politici della storia del ’900 fino ai nostri giorni. “Questi versi”, dice in una nota, “muovono da varie istanze, attingendo a, o riverberando su, alcuni tra i piú paradigmatici episodi della vita pubblica, della storia e della cronaca, che hanno lasciato un solco nell’immaginario, nodi e snodi di epoche avvertite con crescente sentimento di allarme o minaccia”. Si parte quindi dalla Shoá, “fino alla piú recente deriva politica della peggiore Italia”.
Il libro é quindi immaginato come un diario, un viaggio d’inverno, “winterreise”, appunto, da intendersi come attraversamento di una lunga stagione di malanni, di epocali passaggi verso una auspicata primavera.
L’aggettivo piú ricorrente dell’intera raccolta – tra l’altro strutturata in un arco cronologico molto ampio, quindi con la possibilitá di cogliere appieno le tappe di maturazione di questa poesia – é “atro”, che ben rende il clima di livore sociale, ma anche lo scenario di stridore delle forme, l’ insistenza, nei momenti di maggior ossessione strumentale, dell’agire sulle forme chiuse e sulla ricerca di variazioni all’interno di queste forme.

e intanto, portano ire
e indossano su corpi
dichinanti a patire
la rabbia d’anticorpi
e intanto, hanno mire
coltivano nei torpi-
di giorni ogni ambizione
a dirsi in guarigione
p 64

E’ un esempio di mobilitá verbale, realizzata mettendo in campo una fitta ragnatela di assonanze e allitterazioni, autorizzate ad agire non da un gioco verbale fine a se stesso, ma dalla materia del racconto: e cioé dallo stridío dell’accadere, con esiti che, nell’ultima sezione, dedicata “alla peggiore Italia”, toccano picchi di parossismo, a significare, insomma, come la poesia possa tenersi in stretto contatto con la realtá sbeffeggiandone la lingua – la sua zona piú sensibile ai cambiamenti – con le armi del grottesco e del pastiche verbale.
Ossessivo appare, per esempio, lo scambio semantico peti/poeti, con tutto un susseguirsi di invettive che farebbero la loro bella figura declamate davanti a un microfono – e come non pensare ai giochi verbali di una maschera tragica della commedia dell’arte come Toto, sospesi tra funambolismo, ironia e messa alla berlina di una tragica Italietta che, appena uscita dalla guerra, si pavoneggiava spocchiosa in sogni di cambiamento.

i poeti d’allevamento
non passeranno alla storia
peti in aria di commento
aceti in botti di boria
i poeti da cortile
non passeranno alla storia
peti in cerca di stile
feti in vitro, in gloria
p 136

Sembra dirci Cohen, che la lingua della poesia é stata talmente denudata della sua funzione sociale e culturale, da farla coincidere con le barzellette di Berlusconi – e Choen ne riporta una come esempio – e ha ragione nel sostenere Gianni D’Elia in una nota, che “c’é qualcosa nelle poesie di Manuel Cohen, che assomiglia alla pietá ma non é la pietá. E’ un sentimento duplice: di resa e di abbandono, e d’oppositiva resistenza”.
Assistiamo infatti, nei passaggi migliori, alla commistione tra inevitabilitá dell’accadere e sentimento tragico dell’ineluttabile, con conseguente abbattimento – o abbruttimento – della lingua, verso una nostalgia del perduto, del senza progetto – si veda, per esempio, una delle sezioni piú belle dedicate alle “voci di muto amore”:

(e intanto il tempo passa
la vita corre accanto
alimentando l’idea
che, come per incanto
non senza via d’uscita
il tempo c’é, c’é vita
ancora da giocare
da spendere, rischiare)
p 62

vita, vita colpita
tritata a questa mola
irredente ferita
al giorno che non vola
alto sulla stranita
stanza, cellula viola
impazzita al sudario
alto letto atro estuario
p 63

Si avverte chiaramente il tono dolente di questi versi, redatti in funzione di urna cineraria, da contenere i resti degli afflitti, degli amori ” da non dire”, consumati, sotto la scure epocale dell’aids. E questo fa sempre la poesia quando si rivolge ai progetti falliti: consola, perché “pure una povera poesia in forma di prosa/ha nel suo cuore una rosa“,/ha nelle sue mani/l’offesa, giustizia e libertá per la vita spesa” p 81.
Citando i maestri, quindi, Choen si pone in ascolto delle ragioni profonde della sua poesia e quindi di una koiné fatta di poeti che si sono posti le sue stesse domande. Non procede da solo, ma, anzi, é accompagnato da fitta una schiera di anime sconfitte, massacrate, sacrificate che vogliono ancora portare le loro ragione al tribunale dei giusti e chiedono alla poesia di farle traghettare.

(non chiuderai il libro in pieno dire
non sbarrerai la porta alle parole
gravi che qui potrai intendere e udire
lettore uomo avventore – di parole
grette tronfie coatte, che a non finire
sanno i recinti di fili, e parole
spinate – non potrai dimenticare
le separate schiere, il disamore )

Sebastiano Aglieco

p.s.

una selezione di testi è possibile leggere qui: qui


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