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Marcel Duchamp e la nuova strutturazione dello spazio artistico

Creato il 09 maggio 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

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Se la civiltà umana fosse estinta, e venissero rinvenute opere di Leonardo Da Vinci da una parte, e quelle di Marcel Duchamp dall’altra con le rispettive date, i nuovi abitanti della terra non avrebbero alcuna speranza di poter comprendere l’iter storico portato avanti dall’uomo in campo artistico. Ma quando si tratta di discipline che guardano al complesso contenuto di cui dispone l’interiorità umana, è difficile trovare il filo conduttore che lega le diverse fasi di un percorso che non può e non vuole essere lineare. Originario della Normandia in cui nasce nel 1887, Marcel Duchamp rappresenta l’artista libero di vivere e di scegliere la propria strada in modo incondizionato. Dal dadaismo al fauvismo, dal futurismo al cubismo, Duchamp prese spunto per poi caratterizzarsi in modo così unico, da non poter essere contestualizzato entro una precisa corrente artistica. Probabilmente l’unica definizione che potrebbe rendere giustizia al genio di Duchamp è quella di sostenitore di una “pittura non retinica”.

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Lo scopo di Duchamp, infatti, coincide con la ricerca di opere che suggeriscano un’idea anziché offrire immagini, che cambino la funzione di un oggetto piuttosto che ricrearlo ex-novo. Ecco come nascono i cosiddetti Ready-made. Essi non sono altro che oggetti già esistenti e con una funzione specifica all’interno della pratica quotidiana, che l’artista va a stravolgere, in favore di un nuovo modo di concepire lo spazio artistico. Quest’ultimo diventa nell’ottica di Duchamp, il luogo in cui non deve esistere alcuna discriminazione dettata da preconcetti “artistici”. Così una Scolabottiglie (1914) e un Orinatoio (1917), per citare due Ready-made, perdono la loro originaria funzionalità, disponendosi allo sguardo dello spettatore che invece di imbattersi in essi in un mercato o in un bagno, se li ritrova in una galleria d’arte. Non vengono apportate modifiche a un oggetto per renderlo esteticamente appetibile, ma cambia il contesto in cui esso viene inserito. Il contatto tra oggetto e contesto può ritrovare un senso solo quando l’osservatore, oltrepassando lo stupore iniziale, impone un proprio paradigma di significati.

Ma non è solo con i Ready-made che Duchamp mette in atto una provocazione indirizzata alla concezione classica dello spazio artistico; tutte le sue opere costituiscono un invito ad andare oltre la percezione sensibile, guardando al contenuto concettuale di esse. Così nel suo Nudo che scende le scale (1912), le linee e i colori trasmettono l’idea del movimento, anziché voler ricreare ciò che il titolo stesso suggerisce.

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Infine sarebbe impossibile non citare un’opera di forte impatto come La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (1915-1923). Quest’opera, conosciuta inoltre come Il Grande Vetro esposta tutt’ora al Philadelphia Museum of Art, fu dichiarata da Duchamp incompiuta. Ma questa mancata “risoluzione” dell’opera non è un limite, al contrario rende il senso più autentico dell’opera; essa non si impone in modo definitivo, ma lascia sempre aperta la possibilità di un’interpretazione diversa. Anche l’impiego del vetro risponde all’esigenza di non fissare le immagini su un sfondo determinato, ma di proiettarle in un contesto soggetto al cambiamento. La trasparenza del vetro, infatti permette di guardare l’opera e allo stesso tempo il mondo imprevedibile che vi sta dietro. lo spazio tra l’uomo e il mondo si estende perché in mezzo c’è Il Grande Vetro, ma non per allontanarli, ma per instaurare tra essi un rapporto più profondo mediato dalla cultura.

Con Duchamp, il modo di intendere lo spazio entro cui l’uomo si manifesta culturalmente, non deve mai essere inscritto in regole ben precise, ma al contrario si devono mettere sempre in gioco nuovi modi di destrutturarlo/strutturarlo.

Elisabetta Rizzo



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