Stringendo tra le dita quei lembi di stoffa lisa e logora, prova forse la stessa emozione che sente quando sfoglia le pagine di un volume raro o le carte sgualcite di un manoscritto creduto perduto. Qualcosa passa attraverso le dita e arriva fino a lui
E' un libro, Il cappotto di Proust di Lorenza Foschini, che poteva scrivere solo una persona che ama l'autore della Recherche di un amore quasi inspiegabile. Però è anche un libro che davvero può leggere anche chi di Marcel Proust non ha letto mai una riga, magari rimanendo aggrappato solo al sentimento del tempo perduto, alla voglia di ridare un senso e un'emozione a ciò che è stato.
Molte cose ci sono in queste poche pagine. E forse a mancare è proprio lui, Marcel Proust, ombra, enigma, profondità che non si lascia sondare, uomo che è diventato il suo capolavoro. Piuttosto c'è il cappotto da cui non si separava mai, nemmeno nei giorni più caldi dell'estate, nemmeno sul letto dove ha scritto gran parte delle sue pagine. C'è un raffinato bibliofilo, Jacques Guérin, industriale dei profumi che sapeva impiegare la sua memoria olfattiva anche per i libri, capace di annusare ciò che vale davvero come un cane da tartufo. C'è il rapporto complicato con un grande artista. C'è la battaglia tra ciò che spinge a cancellare, rimuovere, dimenticare - fosse anche una cognata pronta a bruciare le carte rimaste - e tra ciò che spinge a conservare e collezionare (il collezionismo non è forse un tentativo di resistere al tempo che si perde?).
Ci sono queste cose, in questo libro bizzarro (il bello è sempre bizzarro, affermava Charles Baudelaire), che partendo da un dettaglio ci dice su un'epoca e su un artista più di tanti ponderosi saggi