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Marco Candida, Il bisogno dei segreti – di Jacopo Nacci

Creato il 25 aprile 2011 da Viadellebelledonne

Jacopo Nacci
RESA DI UN RECENSORE DI CANDIDA
Ogni storia non è regolata da un conflitto ma da una relazione. A volte questa relazione può rimanere solo un tentativo. Altre volte può riuscire pienamente. Storie di popoli. Storie di Nazioni. Storie piccole. Storie grandi. Tutti soltanto tentativi di relazione. Toccami oppure Non toccarmi. Baciami oppure Non baciarmi. Vieni a casa mia oppure Non venire.
Marco Candida, Il bisogno dei segreti
(le frasi in Italique si riferiscono a un manuale di frasi fatte per imparare l’inglese)

Da giorni vorrei parlare del nuovo romanzo di Marco Candida, Il bisogno dei segreti (Las Vegas, 2011). E non ci riesco. Ho quasi sempre creduto di riuscire a comprendere la scritture e le storie di Candida, il loro senso, i loro sensi, i loro piani e di possedere le loro chiavi di lettura.
La prima cosa che scrissi su un romanzo di Marco Candida fu una recensione del Diario dei sogni (Las Vegas, 2008) che era anche un confronto tra Il diario dei sogni e La mania per l’alfabeto (Sironi, 2007); poi continuai con una recensione di Domani avrò trent’anni (Eumeswil, 2008): in entrambi i casi mi erano chiare – o, almeno, credo che mi fossero chiare – le direzioni, i passaggi, i rimandi, le evoluzioni e le rivoluzioni di senso: nella mia testa c’era un universo candidiano di concetti e significati, i mutamenti del quale potevo comprendere – o credevo di poter comprendere – disegnando, ogni volta che leggevo un nuovo lavoro, una nuova cartina geografica – come le cartine delle terre fantastiche che si trovano nel Signore degli Anelli o nella Spada di Shannara – e confrontando ogni volta la nuova cartina con le precedenti.
Con Il mostro della piscina (Intermezzi, 2009) ero già andato un po’ in crisi. Però – mi dicevo – vabbè: è un romanzo completamente diverso, estemporaneo, appartiene a un genere particolare, e poi si sa che lo ha ideato tanti anni fa, quando non era ancora davvero // Marco Candida //, il Marco Candida delle cartine geografiche dispiegate sul tavolo della mia testa. E così, dicendomi queste cose, ho superato la crisi. Ecco. Giorni fa ho letto Il bisogno dei segreti, che, lo dico subito, è un gran bel romanzo. E questa volta non ci sono scuse. Apertamente mi arrendo: non scriverò una recensione del Bisogno dei segreti, o almeno non scriverò il tipo di recensione che credevo avrei scritto. E nel raccontare questa resa, nei prossimi post, cercherò almeno di spiegare perché.
Come ho scritto nell’intro, dentro la mia testa c’è un lungo tavolo, e su questo tavolo sono dispiegate le cartine geografiche che riproducono – o che io credo che riproducano – l’universo di Marco Candida. Eppure, come ho scritto sempre nell’intro, mi sono arreso: non recensirò Il bisogno dei segreti di Marco Candida, a meno che non si voglia considerare una recensione questa serie di post; di certo non è la recensione che immaginavo di fare. E, come ho scritto nell’intro, non ho scuse. Non ho scuse perché, nel Bisogno dei segreti, il Candida delle cartine geografiche dispiegate nella mia mente c’è: è nel mondo fatto di messaggi e paranoie; nel reale in cui si crea uno squarcio su un altro mondo che a sua volta determina una distorsione del reale; nel tema della vergogna; nei tratti del grottesco; nelle storie che stanno dentro altre storie.
E poi ci sono variazioni di temi ricorrenti: lo squarcio nella realtà qui è voluto e lucidamente aperto dalla protagonista Connie, e potrebbe essere confrontato con altri squarci dei romanzi passati, generati piuttosto dalla mania, dal sogno, dalla paranoia; lo squarcio qui è sì su altri mondi, ma su mondi la cui alterità è data dall’essere mondi privati, dal loro essere mondi segreti rispetto a un mondo sociale e pubblico, e non dall’essere mondi onirici rispetto a un mondo condiviso; sono mondi nascosti che vengono rivelati, mondi talvolta manomessi, talvolta allucinati, ma non generati dal delirio, anche se sono in grado di generare il delirio; c’è un superamento della vergogna, nel disegno della protagonista, perché la realtà è brutale e pesa più del narcisismo e delle relative dinamiche di autodifesa e autodenuncia.
Poi ci sono gli elementi caratteristici di questo romanzo: la potenza dei segreti, che sta nel loro sembrare piccole cose quando sono segreti e nel loro diventare, invece, mostri inarginabili quando vengono allo scoperto; e se, attraverso uno squarcio, pezzi di decine di mondi privati entrano nel nostro mondo pubblico, si può generare una nuova, diversa, terribile lettura di ciò che accade nel mondo pubblico; ci sono poi mondi possibili che sono i luoghi del nostro mondo che Connie potrebbe visitare e che invece non visita, preferendo a un’esplorazione estensiva un’esplorazione intensiva, dentro di sé, nelle sue possibilità e nelle sue relazioni; c’è l’impressione di un dilagare della tecnologia contemporanea, c’è l’idea della sua immediatezza e pervasività, del pericolo sempre presente di essere ripresi, intercettati, registrati, che accresce la tensione durante la lettura; scompare la dimensione meta- dei romanzi precedenti, scompare l’usuale consistenza ontologica delle dimensioni oniriche, delle allucinazioni, scompare la narrazione in prima persona: qui siamo completamente nella fiction, e quindi, proprio per questo, il mondo di cui si parla è il mondo reale, non si scappa, è l’unico mondo: c’è un corpo maledettamente credibile, c’è la lucidità di un progetto distruttivo, c’è una malattia del corpo e c’è, sì, una tristezza palpabile, vera; anche nel Diario dei sogni c’era una tristezza palpabile, nella rappresentazione del disagio psichico di Verino Lunari; ma, diversamente da quanto accadeva nel Diario dei sogni, qui tutto è solido. Eppure, tutto, come sempre, è lieve, e spesso divertente, anche nel senso del divertere, nel modo tipico di Marco Candida, che annida racconti dentro racconti.
Ma non riesco a produrre alcuna cartina in base al permanere dei motivi ricorrenti rimasti e alla comparsa di nuovi motivi, alla scomparsa dei motivi scomparsi o alle loro nuove incarnazioni; non riesco a produrre nessuna cartina, nessuno schema dei concetti, nessuna costellazione esaustiva dei significati di questo romanzo, nessuna composizione coerente delle sparse aggregazioni locali che abitano la mia mente da quando l’ho letto. Riesco a fermare l’occhio su aspetti parziali della sua struttura, ma l’insieme mi sfugge sempre; tengo ferma un’aggregazione, due aggregazioni, ed ecco che una terza mi sfugge, è dietro di me, o sotto, o sopra, perché Il bisogno dei segreti è avvolgente; e più lo esploro, più – nella sua rapidità, nella sua levità – mi pare senza fondo.
Perché poi c’è un’altra cosa, che mi sembra importantissima: mai come questa volta un romanzo di Candida ha assunto la fisionomia di un campo di indagine morale, e il finale – e attenzione, lettore, ché nei post successivi, o quanto meno nel prossimo, parlerò del finale del Bisogno dei segreti, che è un finale che cambia il senso di ciò è stato raccontato prima di giungere al finale; ma devo anche dirti, lettore, che il romanzo è talmente intrigante che forse, anche se leggerai i prossimi post, quando aprirai il libro, te lo godrai ugualmente; forse, addirittura, quando aprirai il libro e comincerai a leggere, dimenticherai ciò che sto per dirti nei prossimi post – e il finale, dicevo, è un finale che non so definire se non con l’aggettivo difficilissimo. E ne parlerò nella seconda parte della Resa del recensore di Candida.
Come ho scritto nella prima parte, Il bisogno dei segreti ha la fisionomia di un campo di indagine morale, e questo soprattutto per il finale, che è un finale che cambia il senso di tutto ciò che è stato raccontato prima; ho scritto che in questo post parlerò del finale, e poi che ne terrò conto nei prossimi post, ma ho anche scritto, «lettore, che il romanzo è talmente intrigante che forse, anche se leggerai i prossimi post, quando aprirai il libro, te lo godrai ugualmente; forse, addirittura, quando aprirai il libro e comincerai a leggere, dimenticherai ciò che sto per dirti».
Nel finale del Bisogno dei segreti, Manuel, l’ex della protagonista Connie, è certo che Connie abbia avuto delle buone ragioni per mettere in atto il suo piano contro le persone che la circondavano, e propone un’interpretazione dell’agire di Connie, un’interpretazione che Connie accoglie. Ora, questa interpretazione si compone di due parti, che sono in effetti due spiegazioni – e Connie le conferma entrambe – ed è di questo dualismo che vorrei parlare, perché mi sembra che in questo dualismo ci sia uno dei segreti del Bisogno dei segreti.
Comincio dalla seconda spiegazione di Manuel perché almeno questa – «hai voluto fare in modo che nessuno di loro provasse per te troppo dolore al momento della tua morte» – e la relativa conferma da parte di Connie sono un segno che sta dopo la storia come un meno sta davanti a una lunga parentesi: il segno meno davanti alla parentesi cambia il valore di tutto ciò che è dentro la parentesi; allo stesso modo la spiegazione che Manuel dà del comportamento di Connie rovescia in positivo il valore delle azioni di Connie. Eppure, è come se una miopia mi impedisse di vedere se quel segno meno davanti alla parentesi c’è davvero: infatti, se provo a guardare sia a questa spiegazione data da Manuel alla fine del romanzo, sia a tutto ciò che nel romanzo è successo prima, ecco che da un lato, il lato di questa spiegazione di Manuel, il male più gratuito possibile è fatto nel nome del bene più gratuito possibile, un bene quasi sovrumano; ed ecco che dall’altro lato, il lato di tutta la storia che precede il finale, questo male mi appare sempre troppo ben fatto, troppo perfetto e troppo perfetta la recita di chi lo compie – ma forse proprio perché è fatto nel nome del bene più gratuito possibile – perché io non mi perda e non mi domandi, anche dopo il finale, quanto davvero sia sincera la conferma di Connie alla spiegazione di Manuel, quanto il finale sia davvero un meno davanti alla parentesi, quanto davvero il male compiuto sia stato fatto a fin di bene.
Veniamo ora alla prima spiegazione di Manuel: «Insomma è stata solo apparenza. Tu non sei mai stata malvagia. Stavi soltanto seguendo un piano. Disgustare te stessa. Distruggere l’immagine del mondo. Convincerti che in fondo non vale la pena viverci. Che non è così doloroso lasciarlo». Ora, sebbene la chiave di entrambe le spiegazioni di Manuel sia il disgusto, un disgusto che, disgustando tutti, salva sia chi se ne va sia chi rimane, sebbene Manuel faccia seguire le spiegazioni l’una all’altra come se potessero essere vere entrambe, due parti di un’unica coerente interpretazione, e sebbene Connie accolga entrambe le spiegazioni; sebbene accada tutto ciò, a me sembra che, a un primo sguardo e sotto un certo aspetto, le due spiegazioni si escludano a vicenda, e la prima spiegazione acuisce quella mia sensazione di miopia di fronte al segno meno davanti alla parentesi; che forse però non è una miopia mia, ma una magia del testo. A un primo sguardo, dicevo, le due spiegazioni mi sembrano andare in conflitto ed escludersi vicendevolmente, sia dal punto di vista cognitivo sia dal punto di vista dei valori; dal punto di vista cognitivo perché la prima spiegazione si riferisce a un volersi convincere mentre la seconda si riferisce a un disegno lucido, un voler convincere gli altri, che pare non poter non prendere le mosse da una piena coscienza della realtà; dal punto di vista dei valori perché mi appaiono inconciliabili l’egoismo di chi vuole abbandonare la vita come si abbandona qualcosa di disgustoso, e l’altruismo di chi vuole lasciare agli altri un pessimo ricordo di sé affinché gli altri soffrano meno.
Qui secondo me c’è qualcosa sotto; qui, credo, si trova uno dei nodi cruciali del Bisogno dei segreti, e qui si aprono due vie possibili: le chiamerò la via mistica e la via erotanatica, e cercherò di parlarne nella terza parte della Resa di un recensore di Candida.
La via mistica. Forse di fronte a un mondo, a un corpo e a una morte che reclamano la propria realtà, di fronte alla coscienza piena della nostra transitorietà, è possibile risvegliarsi davvero (dalle manie, dal sogno, dalle paranoie), e amare davvero (se stessi, gli altri), tanto da sacrificare il proprio buon nome e la propria immagine pubblica come se niente ci legasse ad essi. Ora, seguendo le tradizioni mistiche, è possibile ipotizzare che chi si trovi nel pieno della coscienza, ovvero unito con lo spirito, possa trattare se stesso come un altro pur rimanendo uno, cioè possa distaccarsi da sé e amarsi come persona. In questa prospettiva è possibile leggere gli atti di Connie non come un atto di egoismo e un atto di altruismo in contraddizione tra loro, ma come un unico atto altruista, una redenzione di tutti, compresa la propria persona, il frutto di un amore totale e incondizionato verso tutto e tutti, compresa la propria persona. È possibile, allora, che sulla via mistica le due spiegazioni di Manuel siano vere entrambe?
Non mi sembra. Le tradizioni mistiche dicono anche che la coscienza unita con lo spirito non si inganna: da Eraclito in poi, insegnano che il distacco da sé – l’uscire dal centro del proprio ego – e l’intelligenza della realtà vanno di pari passo. Se è dunque possibile diventare affettivamente i genitori di se stessi, non sembra però possibile sdoppiarsi e convincere se stessi del fatto che il mondo sia disgustoso proprio mentre si sta compiendo un atto d’amore. Come interpretazione del Bisogno dei segreti, dunque, la via mistica mi sembra funzionare solo per ciò che riguarda i valori, e certamente il salto spirituale può permettere di liberarsi del narcisismo – il buon nome, l’immagine: l’ego, appunto – ma mi sembra escludere uno sdoppiamento cognitivo, una separazione tra un se stesso che inganna e un se stesso ingannato e ingannabile; senza contare che, dal lato del se stesso che inganna, una promiscuità con la menzogna, pur se a fin di bene, sembra estranea e contraria alla vita realmente spirituale.
L’alternativa è che Connie sia effettivamente convinta che non valga la pena di vivere nel mondo e che non vi sia contraddizione cognitiva tra l’atto apparentemente altruista (disgustare gli altri rinunciando all’amor proprio) e l’atto apparentemente egoista (disgustare se stessi per non volersi più bene e morire in pace, senza rimpianti), fondati entrambi sul vero, votati alla perdita dell’amor proprio (disgustare gli altri, permettersi di disgustarsi, rovinare tutto per non credere di perdere qualcosa di buono con la vita); ma non è una visione troppo nichilista perché il disgustare gli altri possa avere la motivazione che Manuel pretende che abbia: salvarli dal dolore della perdita, fare tutto ciò per il loro bene, compiere un gesto d’amore, cioè avere ancora un sentimento del valore?
Se questo è vero, se è vera una via nichilista – che non avevo considerato nella seconda parte, perché questi post sono un ragionamento che si fa mentre scrivo – il confessare a Manuel che sì, Connie ha agito come ha agito a fin di bene, non è un fallimento del nichilismo? Il fallimento dimostrerebbe che in effetti il bene è realizzabile: e questa non è in fondo una vittoria? Possibile. Ma questo finale, che è anche il giudizio salvifico di una vittima che ama il carnefice e il consenso di un carnefice a quel giudizio, è possibile che serva a nascondere a vittima e carnefice l’essenza gratuita e reale del male, a riporla per l’ennesima volta subito al di sotto del pavimento, nelle zone dei segreti, sotto uno strato di piccole omissioni e minuscole bugie, uno strato talmente sottile che basta un niente per lasciare affiorare ciò che di disgustoso c’è nella vita? Perché non c’è mica bisogno, come dice Connie a Manuel, di uccidere qualcuno o andare là dove il mondo cade a pezzi per provare disgusto per se stessi e distruggere l’immagine del mondo. Eppure tornare a nascondere il male nel segreto, nascondere la sua esistenza a se stessi e agli altri raccontando che era tutta una recita, è pur sempre un atto salvifico, forse un’ipocrisia necessaria. Ed ecco che torniamo al nodo, al paradosso: disgustare se stessi e gli altri non è poi così difficile se è vero che sappiamo essere disgustosi, ma, ancora una volta, nascondere infine il segreto che si è svelato, un segreto doloroso – che sappiamo essere disgustosi – non può essere letto come un atto d’amore, verso sé e gli altri? È lecito, giunti a questo punto, usare il termine // ipocrisia //? E se un atto d’amore è possibile, l’immagine del mondo è distrutta? E se l’immagine del mondo merita di essere distrutta, quest’atto, questo tornare a celare il segreto, non è in realtà un’ultima ipocrisia? Il bisogno dei segreti continua a precipitare rovesciandosi su se stesso. E non è finita. Perché quel male fatto da Connie, dicevo, quel male era troppo ben fatto, troppo perfetto, emanava troppo compiacimento. E allora mi domando se il disegno di Connie non sia il realizzarsi di un moto che precede la distinzione tra rabbia e amore e nostalgia e violenza, un moto che rabbia, amore, nostalgia e violenza le porta in sé come un unico magma indistinto. Questa è la via che definisco erotanatica: mi domando se il disegno di Connie non sia un unico gesto mosso dal desiderio del contatto più passionale possibile con il mondo e con gli altri, un voler scuotere per sentire tutto ciò che è possibile sentire: il dolore, la compassione per sé, la compassione per gli altri, i corpi, ancora i corpi, la potenza, la cattiveria, la gentilezza, il rimorso. In definitiva, non c’è forse qui proprio tutta la vicendevole esclusione e insieme la strettissima parentela – e quindi il più vasto arco di oscillazione possibile – tra l’empatia e la depressione, tra la compassione e la collera, tra l’attenzione e l’odio del mondo, tra l’amore e la violenza, tra l’interesse e la manipolazione, tra la relazione e il conflitto? E, sul piano cognitivo, non v’è un’oscillazione tra l’essere convinti e il volersi convincere, tra la rabbia della visione e la visione della rabbia? Non c’è qui una contraddizione che non è contraddittoria solo in un unum al di là della realtà, un pozzo oscuro di dinamismo e desiderio che non può che declinarsi solo in un modo o solo nel modo opposto quando sgorga nel reale? E se è vero che deve necessariamente darsi relazione perché vi sia conflitto mentre non è vero il contrario, qual è la reale forza del campo gravitazionale del conflitto, in determinate condizioni? E qual è la reale forza del campo gravitazionale del conflitto in generale, nel più ampio territorio della relazione? E poi. Chi è più folle: chi compie follie in preda alla follia o chi compie follie lucidamente? Sappiamo cosa sentiamo? Cos’è ciò che stiamo facendo, mentre lo facciamo? La via erotanatica non concilia come la via mistica e non rimanda all’infinito come la via nichilista: finisce, e conduce al centro di una contraddizione insolubile, e insostenibile.
Il bisogno dei segreti è anche tutto questo, è tutte queste domande, e io mi arrendo; questo bel romanzo, che si legge con gusto nell’arco di un pomeriggio, in nemmeno duecento pagine leggerissime e rapidissime mette in gioco talmente tanto e a un tale livello, che la mia somiglia piuttosto a una lotta, e in questa lotta non faccio altro che scoprire quanto e a quale livello questo romanzo mette in gioco. Ma tutto ciò accade in un modo, ed è di questo modo che tenterò di parlare nella quarta parte della Resa di un recensore di Candida.
Come si può leggere nelle parti precedenti di questa resa, qualche considerazione sul Bisogno dei segreti l’ho fatta; per esempio, questa: il ruolo che negli altri romanzi di Candida era svolto da una percezione distorta della realtà, una percezione prodotta dall’ossessione, nel Bisogno dei segreti è svolto da una consapevole manipolazione dei dati di realtà a opera di una protagonista che organizza ai danni del mondo un piano ben preciso, un piano che consiste nel trasformare la realtà altrui in un incubo. Per ora teniamola qui, questa considerazione.
Ho detto che in questa quarta e ultima parte avrei parlato del modo in cui, nel Bisogno dei segreti, accade tutto ciò che accade. Ecco. Innanzitutto c’è il gusto della lettura, talmente intenso che posso prendere in mano il libro con le migliori intenzioni esegetiche e dopo un po’ sto correndo sulle parole dimenticandomi completamente degli universi candidiani, delle cartine geografiche, di tutto quell’armamentario cerebrale da cerebralisti; dopo averlo letto la prima volta mi sono pure detto: rileggendolo non succederà; e invece è successo di nuovo. In secondo luogo nel Bisogno dei segreti i temi candidiani sono come sminuzzati, centrifugati, amalgamati, affogati in una pasta completamente nuova; qui c’è un testo che non rinuncia alle descrizioni ossessive ma, rispetto al passato, nasconde i simboli più profondamente, o diversamente: i simboli entrano nella mente di soppiatto, come alle spalle di una sentinella; ma la sensazione è che andranno tutti dove devono andare, e andranno a conficcarsi più in profondità di dove li avrei sistemati io se si fossero fatti vedere dalla sentinella.
Il bisogno dei segreti, rispetto ai romanzi precedenti, sembra scritto con la leggerezza di chi non costruisce più strutture ma si limita a usarle spontaneamente, di chi è divenuto tutt’uno con il suo immaginario, di chi è divenuto il pozzo oscuro e incosciente di sé dal quale escono le storie come dall’inconscio escono i sogni; nei sogni siamo bravissimi a inventare cose che da svegli non sapremmo mai inventare. Ed è proprio questa naturalezza, questa armonia nell’alchimia che, oltre a rendere la lettura un’esperienza avvolgente, non mi permette di prendere note per la mia cartina geografica mentale: manca qui quella ossessione che lasciava esplodere fuori dalle pagine dei precedenti romanzi i pezzi delle strutture che sorreggevano quelle pagine.
Ho il sospetto che Il bisogno dei segreti non voglia che io capisca la complessa struttura di piani che sta nella mente di Marco Candida; non vuole che io mi distragga; non vuole condurmi dentro la cattedrale per permettermi di contemplarne, ammirato, la complessità: vuole risucchiarmici, nella cattedrale, e farmi impazzire con le sue geometrie, e non farmi più uscire; vuole essere una storia, la storia che è. E sì: ho scritto che Il bisogno dei segreti non vuole che io mi distragga decodificando le strutture nella mente di Candida; non ho scritto che Candida non vuole che io decodifichi le strutture del Bisogno dei segreti; lo so che ho scritto così, è esattamente quello che voglio dire. Perché qui è il romanzo che comanda. Ma, mi dico, il romanzo comanda perché chi lo ha scritto gliene ha dato il potere: chi lo ha scritto ha costruito un automa che è capace di difendere la mente del suo creatore dai tentativi di invasione da parte del lettore. Perché mai mi viene un pensiero del genere? Non è indebito? Tra poco ci arrivo.
Provo a mettere insieme tutte queste cose: non una protagonista con un’ossessione che esplode incontrollata, non la mania per l’alfabeto e non la mania nell’alfabeto, ma una protagonista che mette in atto un sabotaggio deliberato e lucido; un libro che appare più puramente fiction rispetto ai suoi predecessori, avvincente in modo meno cerebrale, eppure pieno di intersezioni di piani e non privo di rimandi ai suoi predecessori; e infine questo pensiero strano, di un automa che, autonomamente, appunto, si pone come una barriera tra il lettore e l’autore.
Dunque. Esplorando le opere precedenti di Candida non si riusciva a capire quando fosse necessario fermarsi prima di sconfinare indebitamente dal testo letterario all’idea che l’autore del testo letterario aveva dell’autore di un testo letterario; nel testo, la rappresentazione dell’autore di un testo letterario in quanto autore di un testo letterario era quanto meno suggerita dalla presenza di un personaggio-simbolo che agiva su un piano distinto dalla realtà consensuale. Quindi, per forza di cose, nel Bisogno dei segreti non è facile non notare l’assenza di una tale rappresentazione. E proprio per questo Marco Candida aleggia ovunque come un sorrisone beffardo, e non riesco a non leggere nel gioco di Connie, nel suo lucido e calcolato piano di sabotaggio che non è il frutto di un’ossessione, il lucido e calcolato piano di Candida che mette a punto il suo automa e si nasconde dietro di lui lasciando che sia il libro ad agire, lasciando che sia il libro il protagonista. Se penso in questo modo, Il bisogno dei segreti è anche la declamazione della scomparsa, dal testo, della rappresentazione dell’autore, e questa declamazione è frutto di una decisione, e il testo è così anche la comunicazione di questa decisione: la decisione di Marco Candida di declamare la scomparsa della rappresentazione dell’autore di un testo letterario dal testo letterario, perché proprio ora che la rappresentazione dell’autore di un testo letterario scompare, questa scomparsa è una decisione autoriale che non può non essere attribuita a Marco Candida come autore particolare, così come, un tempo, la decisione di rappresentare l’autore di un testo letterario nel testo letterario era una decisione di Marco Candida. Se penso in questo modo, Il bisogno dei segreti sta a Marco Candida come il disegno di Connie sta a Connie; se penso in questo modo, Il bisogno dei segreti è la metafora di se stesso. Il che – escludendo Il mostro della piscina – rende ai miei occhi Il bisogno dei segreti il primo vero romanzo di fiction e non meta-letterario di Candida, ma insieme anche il suo primo romanzo meta-metaletterario. Ciò è indebito? Sicuramente, assolutamente indebito. Ma, così fosse, si può ancora parlare di scomparsa dell’autore del testo letterario dal testo letterario o si deve parlare, piuttosto, di scomparsa di Marco Candida dal testo letterario? E come leggere il finale? Quel finale che fa l’effetto di un segno meno davanti a una parentesi? Quel finale in cui il male più gratuito è fatto nel nome del bene più gratuito, ma anche quel finale dopo il quale sembra impossibile che tutto quel disegno sia stato attuato senza compiacersi del male? Quel finale che lascia aperta la via erotanatica? Cosa suggerisce al lettore, senza suggerirlo, Marco Candida, sulla relazione che vuole instaurare con il lettore?
Ti lascio con queste domande, lettore, mi arrendo, e Marco Candida, come Connie, ha vinto. Per questo non ho scritto una recensione, questa chiaramente non è una recensione, è inserita sotto la categoria “recensioni” solo perché se qualcuno dovesse cercare una recensione del Bisogno dei segreti scritta da me, è giusto che trovi questi post e sappia che non ho scritto una recensione del Bisogno dei segreti e sappia perché non ho scritto una recensione del Bisogno dei segreti. Che è un gran bel libro. Leggilo.



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