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Marco Ceriani - Iscrizioni

Da Ellisse


Marco CerianiMarco Ceriani è nato nel 1953 a Uboldo (Varese), dove attualmente risiede. Con i suoi “rari e laconici messaggi”, affidati a due libri (Sèver, Marsilio 1995; Lo scricciolo penitente, Libri Scheiwiller 2002) e ad alcune riviste («Almanacco dello Specchio», «Poesia», «Anterem», «Atelier», «Microprovincia», «Colophon», «Sud»), ha raggiunto “rari e distonici” critici-lettori di poesia. Ha tradotto, con la consulenza linguistica di Vlasta Fesslová, poesie dell’Holan ultimo, l’Holan “cameristico”: dapprima, in un a solo temerario, Il poeta murato, (Fondo Pier Paolo Pasolini - Garzanti 1991), e, in seguito, a quattro mani con Giovanni Raboni, maestro del tradurre, A tutto silenzio (Mondadori 2005) (da una nota editoriale Polistampa.com). Prima delle opere citate era apparso, insieme ad altri autori, in un "Quaderno collettivo" su Poesia Uno (Guanda, 1980), curata da Maurizio Cucchi e Giovanni Raboni, da cui sono tratti questi testi. Nella piccola nota introduttiva, con ogni probabilità attribuibile allo stesso Raboni, si legge:

"Bizzarro, stravagante outsider, Marco Ceriani ci fa compiere un insolito viaggio nella crudeltà ineluttabile e nella grande pietà della natura. Visti dai greci, dagli antichi egizi, dagli achei o dai micenei, ecco, di fronte allo sguardo imperturbabile eppure interessato del cacciatore, uccelli da richiamo e soprattutto uccelli da preda, che Ceriani nomina e raffigura con l'obiettività asciutta e il controllo stilistico di un manuale. È notevole il fascino che egli sa sprigionare da questi spezzoni di una storia possibile, appiattita al livello della pura descrizione, all'interno della quale, peraltro, si dimostrano più volte, con non certo mediocre meraviglia, momenti di piena luce, stacchi di tono che con la rapidità di un volo improvviso colpiscono il lettore, lo avvincono alla pagina, lo infiltrano inaspettatamente nel senso, nel cuore della vicenda: « E così a poco a poco ci siamo inerpicati, goduto l'evolversi in sereno, purezza dei culmini dopo il tempo piovoso giù a valle, alla tangente incontaminata dell'urna alpestre ». Giampiero Neri (ma anche Ponge, forse, andrebbe ricordato...) è senz'altro il poeta che per Ceriani ha funzionato da rivelatore, da incoraggiante guida su una strada che l'autore di Iscrizioni dimostra tuttavia di aver già felicemente intrapreso in proprio". Mi pare interessante notare, in margine al dibattito attuale su prosa poetica o prosa in prosa che si svolge in questi anni, che questi testi, scritti probabilmente alla fine degli anni Settanta, costituiscono quanto meno un ottimo precedente in termini di contaminazione e poetizzazione dei linguaggi, di innesti di piani narrativi, di "sconfinamento" e attraversamento di codici, ma con molto meno appiattimento linguistico e raffreddamento comunicativo di molti altri esempi successivi.


Dello Svasso maggiore (Colymbus cristatus) diffuso in gran numero
in tutta Europa è nota la grande abilità di predatore d'acqua. Questo
uccello vive esclusivamente lungo le rive di fiumi e stagni. Si mantiene
solitamente nascosto tra l'abbondante vegetazione acquatica, galleggiando
immobile tra i canneti per lunghe ore e spostandosi lentamente
qua e là con piccoli colpi delle zampe molto appiattite e adatte
a remigare. Quando avverte un pericolo cerca di celarsi tra la folta
vegetazione, ma messo alle strette si alza in volo agitando rapidamente
le corte ali dopo aver percorso un tratto notevolmente lungo scivolando
sul pelo dell'acqua.
Di caccia secondo che sia alta grossa o minuta, all'abbeveratoio o
all'albergo, a fermo a balzello o di palude, con lacciuoli o con calappi,
con falchi o con altri animali-manieri e altani ferocemente guantati,
ossiuri di lodolai e incarnati - è noto il particolare uso che in
ognuno di questi casi è fatto allo scopo di richiamare la preda.
Nella singolare caccia al capanno per esempio, detta anche nocetta o
di posta, il cacciatore è solito far uso di allettaiuoli, uccelli da
richiamo in gomma o in legno.
Questi piccoli diffalcatori lasciati galleggiare a pelo d'acqua
possono in breve tempo richiamare un numero così grande di loro

simili, svassi e tuffetti folaghe e anatrelle, i quali sappiamo sono
uccelli particolarmente dediti alla vita gregaria, che la superficie dello
stagno ne sarebbe in un batter d'occhio interamente coperta.
Ignorano in simili casi ogni pericolo e per un richiamo che
abbia in sé una istintiva pietà filiale, esiziale persona d'amore, gorgiera
di massacri, sono pronti a sacrificare la loro parte di grazia, dicono
ad abundantiam la tenerezza delle loro piccole gole pulsanti, vivai di
cecità gorgiere di morte, l'alzavola d'acqua la latina anas apula, lo
smergo anche latinamente detto mergus, il moriglione e la morigiana,
la barùzzola la marzaiuola e la rossetta appaiati dalla stessa aliena
copula.

Tutti questi uccelli erano soliti ammaestrare a scopi di richiamo
l'uterinità la tenerezza impotente delle loro piccole gole vivai di
altrettanto dolore.


Ma miei Van Eyck degli indizi, Hieronymus Bosch dei pazzi,
Pieter Brueghel dei mesi e degli inferni, Jan dei fiori e dei velluti,
Paul de Vos delle canizze, non potreste uguagliare questo immaginario
alto gotico falco, non lo potrebbero le vostre fiamminghe arie di
sogno, le vostre sterminate dovizie.
Con zirlo e chioccola si indicano le brevi e acute strida che s'imita
dal gridare che fa il tordo zirlando uno, e due il verso che fa il merlo
e qualche altro uccello, ma anche il fischio di latta o di ottone che
s'adopra per chioccolare.
Nella particolare caccia col falcone infine, la più suggestiva senza
meno, l'animale addestrato suole essere portato sul luogo di caccia
dapprima custodito in gabbie sicuramente armate e tenuto sotto controllo
dallo strozziere, in seguito annesso al falconiere che lo porta
sulla mano guantata impedito nei movimenti da un correggiuolo o
geto che s'adatta per legame alle zampe.
È richiamato una volta raggiunta la preda col logoro, dall'antica
voce germanica luòder che sta a significare allettamento, un richiamo
di cuoio a forma di ali aperte di uccello.
Inoltre grifagno è anche di uccello rapace, una specie di falco dagli
occhi rossi come fuoco. S'intende derivato da grifo, termine che a
seconda lo si faccia risalire al germanico grif o all'antico greco γρύψ
ha diversi significati, vale a dire artiglio nel primo caso, più semplicemente
grifo o grifone nel secondo, specie di animale favoloso aquila
nella parte anteriore e leone nella posteriore, usato assai frequentemente
nell'araldica a simboleggiare la vigilanza e da Dante messo a
trarre il carro della Chiesa nella processione mistica del suo Paradiso
terrestre.
Dapprincipio si segnala per le sue grida stridule con cui avverte il
falconiere di aver avvistato la sua vittima. È impaziente e temerario.
Avvolge la sua preda e la stritola tra gli artigli, celebrando la vittoria
con lo scuotimento delle ali che ha agili, ma senza grida di nessun
genere.
Il grande affresco raffigurava una tipica battuta di caccia col falco,
oggi non più praticata ma un tempo, specialmente nel medioevo e nel
rinascimento, molto diffusa. In esso erano descritti con una doviziosità
di particolari assolutamente encomiabile i diversi momenti di un
simile esempio di caccia, che lo splendore del testo e il preziosismo
manieristico dei chiaroscuri suggellavano intensamente.
La didascalia è a un tempo determinata dalla dicotomia fra la
barocca dizione dello scempio da parte del valvassore e la narcissolalìa
ieratica e ciarliera del falco che vola alto sulla vittima spolpata, in
estatica quiete.
Il falco è senza alcun dubbio l'animale da preda più nobile. In
senso stretto infatti si intendono per falchi i cosiddetti falchi nobili
appartenenti alla famiglia falconidae. Essi hanno becco breve e fortemente
ricurvo con uno o due dentelli laterali nella mascella superiore

e conseguenti incavi in quella inferiore. Sono provvisti di tarsi robusti.
Con vero ardimento si avventano contro la preda dopo aver
roteato a grandi altezze nell'aria. Prediligono l'inaccessibilità delle
grandi rocce. Fra di essi il biarmicus feldeggi o lanario è il più
sanguinario. La caccia col falco di origine probabilmente germanica
venne praticata dai signori feudali soprattutto in Francia e in Italia.
In essa il falcone addestrato (girifalco, laniero, astore, sacro) veniva
portato sul luogo della caccia sulla mano guantata del falconiere con le
zampe legate da una breve striscia di cuoio o geto. Lanciato in aria si
innalzava con ampi giri a grandi altezze, abbattendosi poi fulmineamente
sulla preda che stritolava tra gli artigli o uccideva per urto.
Dalla caparbia indole essi tra l'altro rappresentano il meglio di
quelle doti di tenacia e eroismo che ne fanno di gran lunga gli animali
più nobili tra le loro specie e i meglio apprezzati per le numerose
proprietà caratteriologiche affini all'indole occidentale presso molti
popoli di origine indoeuropea, in tutta la grande area linguistica
facente capo al latino, al greco e inoltre allo slavo al germanico al
baltico e ad altri gruppi etnico-linguistici minori oggi estinti.
In queste aree la presenza di termini affini, soprattutto la
parola neve molto frequente e comune a un numero considerevole di
queste lingue (il russo snĕg, il latino nix, il greco νίψα, il tedesco
schnee, l'inglese snow) e inverno (vedico himás, russo zimá, lituano
žiemá, greco χεῖμα, latino hiems) ha fatto pensare ad una iniziale
sede nordeuropea per questi popoli. Questa ipotesi sarebbe confortata
dal fatto che mancano parole indicanti piante o animali mediterranei e
subtropicali (come fico, lauro, cipresso, vino, leone, scimmia, cammello,
asino, tigre) mentre d'altra parte vi sono conosciuti il cinghiale,
l'orso, il cervo e la lepre.
In tutte queste terre facenti capo ai sussunti dialetti fu diffuso in
epoche abbastanza recenti per uso di caccia alla volpe e alla lepre.
Nel Medioevo e successivamente nel Rinascimento conobbe il suo massimo
splendore. In seguito esso divenne più raro con la graduale sparizione
del tipo di caccia predetto.
Comunque fra i greci Esiodo per primo ci racconta la più antica
favola che noi conosciamo, quella dell'usignolo e dello sparviero, ed è
questa la fonte più remota alla quale ci è dato risalire. Dopo Esiodo
troveremo accenni al nostro solo in un frammento del poeta Archiloco.
Successivamente ogni altro accenno ad esso scomparve.
Tuttavia poiché gli egiziani adoravano una divinità, il dio Horo
raffigurato con la testa di falco, a buon diritto possiamo pensare che
esso già da allora fosse conosciuto in tutto il bacino del mediterraneo.
Prodigale e eccelso esso ha una vista acutissima. Si avventa sulla
propria preda dopo aver roteato a grandi altezze. Il gesto è rapido e
fulmineo e per quanto non disdegni anche la macchia più ostile e
scura, tuttavia solo in grandi spazi aperti in cui gli sia possibile
avvistare la propria vittima descrive con piena efficacia il suo mandato.
Sappiamo inoltre che furono scritti diversi trattati di falconeria,
soprattutto da autori arabi. Ad essi probabilmente si ispirò l'imperatore
Federico II di Svevia, grande appassionato di caccia, per il suo
Tractatus de arte venandi cum avibus dedicato al figlio Manfredi.
Secondo tale fonte il falco addestrato veniva portato sul luogo di
caccia con la testa avvolta in un cappuccio, che gli veniva tolto solo al
momento di lanciarlo sulla preda avvistata, colpita la quale esso
tornava al falconiere.
Per salire fino alla sommità del monte bisognava attraversare più di
uno luoghi impervi coperti dalle più strane forme di vegetazione. Il
sentiero di cui era visibile solo il tratto finale in prossimità del
culmine era quasi interamente coperto da folte e scivolose erbe.
E così a poco a poco ci siamo inerpicati, goduto dell'evolversi in
sereno, purezza dei culmini dopo il tempo piovoso giù a valle, alla
tangente incontaminata dell'urna alpestre. Abbiamo disseminato come
sogliono i migliori esploratori segnali, spezzando rametti di cui uno
serbiamo in fiore, tenuto verso la parte dove l'insidia è minore lo
stretto sentiero. Ma ciò non è bastato, grida stridule di cui non
captiamo la provenienza ci sopravanzano.
La sommità era nascosta da una folta vegetazione. Il capocarovaniere
augurava buon viaggio e a buon rendere.
Camminavamo da molte settimane ormai, da poco avevamo abbandonato
la strada maestra. Preso uno dei tanti angusti sentieri che da
essa volgevano in lente e ondose tornate verso l'anatema scuro e
oracolare del monte. Non avevamo nessun viatico con noi, né bacca né
rovo. Alberi e aromi di incerta memoria accordavano nevai dispersi.
Avremmo dovuto fiancheggiare la strada maestra. Seguirla fino a
una biforcazione che da essa si dipartiva in cento piccole strade,
ognuna di costante e identica ampiezza. Attraversammo macchie di
rovere, infermità e gelo di laghi, suppurazione di erbe.
Narra l'undicesimo libro della Genesi che gli abitanti di Babilonia
(Babel) costruirono una torre per raggiungere il cielo, ma le loro
lingue vennero confuse per cui non si capirono più l'un l'altro e
furono presi dal terrore. In realtà la parola Babel deriva dall'assiro
Bab-ilu che significa « Porta di Dio » e non ha nessuna connessione
con il verbo ebraico Baiai, confondere. Piuttosto il racconto biblico
potrebbe essere una spiegazione ebraica dell'origine delle lingue o un
ricordo dei grandiosi ziqurrat babilonesi, e in particolare di una

grande torre chiamata E-temen-an-ki di cui parlò Erodoto in una
tavoletta del III secolo Avanti Cristo. L'esatta ubicazione sarebbe in
una zona che ora ha nome Es-salam, ma oggi non ne resta alcuna
rovina.
Inoltre da una tavoletta in lineare B, una forma di greco antichissimo
corrispondente alla lingua parlata da achei e micenei, apprendiamo
nell'elenco di animali dovuti alla comunità di Wa (un luogo
sconosciuto) quali di essi fossero comunemente noti: montoni che a
quanto scritto erano dovuti ai telestai di Wa in numero di sessanta,
pecore che erano dovute in numero di duecentosettanta, caproni
quarantanove, capre centotrenta, verri diciassette, scrofe quarantuno,
due tori, quattro mucche; un elenco in cui sono in pratica esauriti
tutti gli animali conosciuti domesticamente.


Altre cose di e su Ceriani sono rintracciabili su La dimora del tempo sospeso (QUI, include anche una nota di Giovanni Raboni),  su Nazione Indiana (QUI, con una nota di Antonio Pane, e QUI una nota di Alessandro Baldacci), su Poliscritture (QUI, una nota di Ennio Abate) e sul blog di Luigia Sorrentino QUI.
Nota: i testi riprodotti  non hanno in origine nessuna divisione in versi, come potrebbe qui apparire (in questa sede non è stato possibile formattarli in maniera "giustificata").

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