Marco Ercolani, PROSE BUIE, Edizioni L’Arca Felice 2013
con dipinti di Carlo Merello
“Il lavoro poetico è rigorosa delapidazione”, dice Marco Ercolani nella quarta di copertina, un pensiero riportato a mano.
Poetica, dunque, di una dimenticanza perseguita come processo, dilavamento delle tracce, “bruciare tutti i libri (…) dimenticare volontariamente chi siamo stati per tutto il tempo in cui subiremo la loro invasione”, (Hailai, p. 50) .
Sono, dunque, prose veramente buie queste di Marco Ercolani, apocalissi di città distrutte; soprattutto di parole, di biblioteche; ogni scrittura compone una sua personale idea di deserto… il compito è tacere…
Che cosa rimane, allora, alla scrittura, se essa è condannata ad esistere, per statuto, prima della cosa? Se il mondo la precede?
Se questo che dico è vero, allora le apocalissi non descrivono ciò che deve ancora avvenire, ma ciò che avverrà perché lo sappiamo già, perché la parola, per poter dire il pericolo, non può sopravanzare la cosa, in quanto, sopravanzandola, non la ri/conoscerebbe.
Le visioni, allora, comprese quelle, realissime, di molte di queste prose buie, ci dicono qualcosa che sappiamo già, che abbiamo già visto prima, nelle dilapidazioni delle guerre, nel vuoto a perdere, nella scomparsa nostra e degli altri.
In questo senso, allora, mi sembra, si possa leggere il pensiero di Marco Ercolani: la scrittura dilapida perché, non potendo prevedere, può descrivere solo ciò che è funesto e sacrificato. Anche, o soprattutto, se stessa.
Eppure, se si legge bene, ci sono immagini in cui si realizza una specie di conservazione, di salvezza: ed è la ricerca del modo perché lo scrittore non sia più uno straniero: un modo che viene dalla consapevolezza di capire che la poesia, la parola, possono non dipendere dalla teche, dal supporto, dal medium insomma. Il medium della vera arte è probabilmente il corpo tutto, qualcosa che la travasa in continuazione dalla carta alla vita, dalla vita alla carta, per giungere a un silenzio carico di parole.
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L’opera è il tempo esatto che il foglio impiega a sparire nell’aria, la mia opera sono io che cerco di perderla dentro e fuori di me (grida), dal mio sacrificio dipenderà qualcosa di straordinario e di bello, forse una nuova civiltà (grida), poi dimentica testa, braccia, mani, mente, parole. Non è più uno straniero, uno scrittore. Basta con il peso delle pagine. Seduto sul bordo dell’aria, in mezzo all’acqua fittissima, comincia a tacere.
(Sul bordo dell’aria, p. 20)
Che tutto questo lo si debba dire con prose buie, vuol dire che siamo in pericolo: inutile è gridare, prigionieri, dentro l’orecchio di Dioniso, a Siracusa, ma è utile, forse, uscirne in silenzio perché il tiranno sopra di noi non possa più ascoltare: “uscire dall’antro: è quello il solo progetto” (Prigionieri di Dioniso, p. 5).
Sebastiano Aglieco