L’ imponente palazzo cinquecentesco che ci ospita è nato come chiesa e poi trasformato in ospedale, infine, durante la presenza francese all’isola d’Elba, tra il settecento e l’ottocento, diventò caserma. Oggi è la sede di un centro di documentazione storico dell’Elba e al primo piano, nella sala più vasta, c’è l’auditorium che funziona anche come cinema per la città di Portoferraio.
La professoressa di filosofia che ha organizzato l’incontro tra Marco Ferrini (Matsya Avatara das) e gli studenti del locale liceo classico e scientifico, parte con un’introduzione tanto spontanea quanto efficace, introducendovi anche elementi biografici attinenti alla sua trasformazione interiore dopo la conoscenza di Matsyavatara Prabhu. Dalla grande scalinata estera in calcare rosa e grigio continuano ad affluire a frotte studenti, che prima di entrare nel bel cortile del palazzo sostano qualche istante nella luminosa piazza d’armi di fronte alla vecchia caserma, proiettata nella sua splendida semplicità sullo specchio di mare dell’antico porto cinquecentesco, cuore della Portoferraio fondata nel 1548 da Cosimo I De’ Medici. Presto la grande sala si riempie, prima i posti al centro e poi quelli in fondo: gli studenti sembra non vogliano avvicinarsi troppo al tavolo dei conferenzieri. Forse per questo Marco Ferrini si alza e scende dal palco per andare tra i ragazzi.
La mia impressione è che abbiano partecipato circa trecento persone. Mi siedo nell’ultima fila e osservo i gruppi di studenti. Da quella postazione Matsya Avatara Prabhu sembra piccolo e fragile, ma una voce ferma lotta col chiacchiericcio disordinato dei ragazzi. Sapevo che le sue corde vocali erano ancora provate dalle quattro ore di incontro senza amplificazione del pomeriggio precedente.
L’argomento era Dante e la Bhagavadgita, opera quest’ultima pressoché sconosciuta agli ascoltatori, ancora più oscuro deve essere apparso il riferimento al Mahabharata. Consapevole di ciò, il Maestro ha ricondotto gli insegnamenti di questi due pilastri della cultura occidentale e orientale nell’alveo della filosofia perenne che si può rintracciare nei classici che proprio quegli studenti incontrano necessariamente nel loro percorso scolastico.
Quando, durante l’esposizione fatta prima delle domande-risposte, ha toccato l’argomento della realtà dell’invisibile contrapposta all’irrealtà del visibile, c’è stata una lunga pausa d’immobilità verbale e fisica dei ragazzi, un picco d’attenzione che mi ha fatto pensare: “Ma perché uscire dall’illusione se nell’illusione si può stare bene, se l’illusione ci può piacere? Perché dall’illusione nasce la delusione”. Durante tutto l’incontro mi sembrava di percepire la fatica mentale e fisica che doveva fare Matsyavatara Prabhu per tenere desta l’attenzione di quei giovani in preda all’esplosione della primavera elbana, ma a quelle parole anche i più “ormonali” hanno avuto uno scatto d’attenzione, sono volate occhiate interrogative: che l’insegnamento dei classici avesse un senso nella vita quotidiana?
All’inizio il bisbiglio di sottofondo mi aveva leggermente infastidito, ma anche considerando che è difficile tenere fermi i giovani adolescenti, poiché il movimento è la loro esperienza naturale, forse il problema era che avremmo dovuto, prima dell’incontro con Marco Ferrini, presentare l’iniziativa alle classi, e questa è un’autocritica che mi sarà utile in altra occasione, però ho constatato che il messaggio arriva, come l’acqua che tutto bagna, talvolta fa germogliare una poderosa querce altre volte cade sulla roccia e vivifica un microscopico lichene.
In tutti i casi avevo pensato che solo una piccola minoranza dei tanti studenti presenti fosse stata veramente presente e attenta.
Quando ho chiesto a mia figlia diciassettenne, studente anch’essa nella classe terza del Liceo Foresi, come avessero recepito lei e i suoi amici l’incontro, inaspettatamente proprio lei ha ribaltato la mia originale visione: “a parte qualcuno che ha fatto un po’ di confusione, agli altri è piaciuta”.
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