Margin Call di J. C. Chandor: c'era una volta la crisi

Creato il 21 maggio 2012 da Saramarmifero

Per sopravvivere nella giungla di Wall Street, hai tre alternative: essere il primo, essere il migliore, oppure imbrogliare. Nella lunga notte che precede lo tsunami finanziario del 2008, i traders di una grossa banca d'affari americana devono scegliere come salvare la pellaccia. Decideranno di intossicare i concorrenti vendendo loro titoli spazzatura.
Ho iniziato a guardare Margin Call con lo scetticismo un po' annoiato di chi è convinto di avere davanti agli occhi un film tappabuchi, magari di discreta fattura, certo illuminato da un cast di stelle (Kevin Spacey, Jeremy Irons, Stanley Tucci, Paul Bettany, Demi Moore), ma niente più che uno dei tanti spuntini utili a placare la fame visiva, prima della scoperta di un nuovo, succulento capolavoro. Ammetto di seguire una dieta cinematografica piuttosto povera di thriller, soprattutto se tra gli ingredienti figurano 1) politica e 2) banchieri senza scrupoli, ma è stato bello, almeno per quest'opera prima dell'illustre sconosciuto J. C. Chandor, poter dire non solo di aver saziato il mio appetito narrativo, ma di essermi addirittura leccata le dita. La tragedia del "transatlantico" finanziario, modellato sulla recentissima attualità delle varie Lehman Brothers e Merrill Lynch, che troppo tardi si accorge di aver navigato per anni su un mare di azioni virtuali e che nell'arco di 24 ore si ingegna a salvare il salvabile prima di colare a picco, è raccontata dal giovane cineasta con un conto alla rovescia serrato, che sembra aver recepito al meglio la lezione di hitchcockiana memoria sulla differenza tra sorpresa e suspence.

Nodo alla gola - Alfred Hitchcock

Secondo il maestro di Psycho, per inchiodare alla poltrona lo spettatore basterebbe mostrare due personaggi seduti ad un tavolo con sotto una bomba pronta ad esplodere, ovviamente a loro insaputa. In Margin Call, tutti sono al corrente della bolla speculativa che sta per scoppiare nei grattacieli di Manhattan, pubblico compreso, ed è proprio la comune consapevolezza del disastro imminente ad innescare il ticchettio della tensione, caricata ancor di più dalla scelta, altrettanto hitchcockiana (vedi Nodo alla gola e La finestra sul cortile), di girare rispettando le unità di tempo e luogo.
Tutto comincia con l'invasione dei tagliatori di teste. Eric Dale (Tucci), solerte dirigente che intuisce prima di tutti il profilarsi del crack, riesce a consegnare nelle mani del suo sottoposto una chiavetta USB contenente le prove del cataclisma, appena dopo essersi visto licenziare in cinque minuti: ufficio svuotato, buonuscita da capogiro e cellulare istantaneamente requisito. Quando il giovane dipendente riesce ad interpretare la babele numerica contenuta nel dossier, la notizia ci mette poche ore a fare il giro dell'ufficio, in un nefasto passaparola che dalla bocca dei vari capi arriva fino alle orecchie del super-boss Jeremy Irons. Mano a mano che si sale nella gerarchia, il messaggio si ingarbuglia in un linguaggio matematico sempre più indecifrabile, in modo cioè inversamente proporzionale alla crescente incompetenza tecnica dei quadri aziendali.
Se in gergo economico diremmo che la banca ha superato “i limiti storici dell'indice di volatilità”, è l'elegante traduzione in codice umano pronunciata dal capo supremo - “ci troviamo con il più grande sacco di escrementi della storia del capitalismo” - a sgombrare il campo da ogni dubbio: la situazione è gravissima, e occorre scaricare quei rifiuti puzzolenti a chiunque sia disposto a comprarli, persino alle proprie madri se necessario, come aggiunge cinicamente qualcuno.
Nella prima metà del film sembra di assistere alla propagazione di un virus all'interno di un campione umano, come avviene in quei kolossal catastrofici alla Contagion. Nessuna crisi isterica però, nessuna corsa disperata per le strade newyorkesi. I traders qui non alzano mai la voce, camminano senza affrettare il passo e, anche nella peggiore delle situazioni, continuano imperterriti a snocciolarsi addosso cifre, file di zeri che corrispondono a mazzette invisibili di dollari: quanto guadagna tizio, o come caio ha speso fior fior di quattrini in alcool e sesso a pagamento.
Eppure, lungi dal dipingere spietati killer finanziari alla Gordon Gekko, Chandor popola la sua storia di personaggi fatti di carne, sudore e lacrime. Umani come il responsabile delle vendite (Spacey), che nell'ora del tracollo finanziario piange a grossi singhiozzi contro il muso del suo cane morente. Contrario alla formula manicheista del 'o bianco o nero' imperante a Hollywood, lo sguardo del regista indugia su una galleria di ritratti ricca di chiaroscuri. Ed è forse proprio il CEO incarnato dal volto granitico di  Jeremy Irons a regalarci l'oscurità più torbida. Se Wall Street è il regno del calcolo razionale per eccellenza, sotto questa freddezza scorre un magma di umane passioni, ed è laggiù, in quel substrato bollente, che il film-maker affonda la sua sonda, alla ricerca delle motivazioni che hanno spinto il primo dei banchieri come l'ultimo degli impiegati a compiere atti consapevolmente devastanti pur di salvaguardare il proprio portafoglio.
Un'élite che si è abituata ad ottenere tutto, a guardare il mondo dall'alto di un grattacielo, incapace di accorgersi di una donna delle pulizie che, impassibile, assiste in ascensore al botta e risposta tra due pesci grossi dell'azienda (vedi foto). Un'élite rinchiusa nel perimetro claustrofobico di una fortezza dove i parametri si ritrovano a testa in giù e il tempo in cui si costruivano ponti necessari per le comunità, e a questi si applicava un valore oggettivo basato sulla loro utilità e sul lavoro impiegato per realizzarli, non è altro ormai che il nostalgico ricordo di un ingegnere mancato. Reliquie di teorie economiche, che le leggi della speculazione hanno trasformato in un trasognato souvenir.

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