Quando ho visto per la prima volta Il matrimonio di mia sorella (Margot at the wedding) ho sondato soltanto la superficie del film, influenzato dal demone dell'analogia e convinto che, in fondo, non ci fosse molto altro da dire. Ne trassi un articolo pubblicato su Dillinger, e in seguito l'ho cancellato da questo blog. Ma in una tranquilla giornata estiva lo rivedo e ne colgo all'improvviso altri dettagli, come se lo vedessi soltanto adesso. Ecco qui qualche rettifica, dunque. Anche se l'etichetta di "realismo nevrotico" gli calza a pennello, per molti aspetti, preferisco rivedere questo film da un'altra angolazione, più ampia e meno attuale, quella del crollo della piccola borghesia. Un tema mai davvero passato di moda, forse, ma che nel film di Baumbach trova un'appropriata e aggiornata messa in scena. Se, infatti, si prova a paragonare Margot at the wedding a film meno recenti come Interiors o Gruppo di famiglia in un interno ci si rende conto che non è più la stessa umanità...La "vita bassa" ha preso il sopravvento, e la relativa unità degli intenti e dei sogni dei protagonisti degli altri film è stata accuratamente sepolta dalla Storia. Adesso ci troviamo forse nella situazione in cui si potrebbe avere nostalgia di una classe sociale contro la quale il Sessantotto aveva alzato ogni grido di guerra, ma che rispetto a dove si muovono i personaggi di questa vicenda - rispetto al vuoto che li assimila e non li lascia quasi esprimere- può apparire degna, come minimo, di un elegia? Peccato che Tarkovskij sia anni luce lontano, ovviamente. Forse il "parallelismo" appena accennato con il cinema russo non è così improprio come sembra, visto che il consueto scavo psicologico della piccola borghesia è reso possibile a partire da una frattura preliminare, nascosta e nello stesso tempo evidente: quella tra l'individuo e la società, di cui la piccolo borghesia cominciava a intuire qualcosa negli anni Settanta (Allen forniva la versione comica, Bergman quella tragica). E' giusto un appunto a margine, nient'altro, visto che non c'è niente (lo sottolineo) che accomuni la nevrosi americana al lamento, impersonale e in fondo "sublime", che può fuoriuscire da un film di Sokurov e simili. Il fatto è che non c'è una cultura da salvare (Arca Russa), e neppure una comunità in cui credere. Da questo punto di vista, quello della comunità, i vicini di casa del film sono esemplari...Probabilmente rappresentano le paure tipiche degli americani in fatto di vicinato. Spazzatura, perversione, corpi di animali ritrovati nel bosco...La sensazione epidermica che la follia alberga in mezzo a noi e che con essa occorre convivere. Margot at the wedding è attraversato da personaggi che vivono esperienze dissociate sotto lo stesso tetto, senza riuscire mai darsi reciprocamente ciò di cui hanno bisogno: Margot (Nicole Kidman) è una scrittrice dipendente dalle droghe e con un figlio con il quale nutre un dialogo disarmonico, fatto di delusioni materne e piccole crudeltà; la sorella di Margot (quella del titolo) è una Jennifer Jason Leigh che va verso il fallimento coniugale per motivi che hanno a che fare con la scarsa autostima che ha di sè (da qui il legame irrisolto con Margot); Malcolm è il futuro marito dai mille lavori "creativi" quanto improbabili (in una scena del film sta scrivendo le "promesse di matrimonio" per un giornale) che trova difficile assimilare qualunque cosa che non sia il suo lutto personale per le stelle del rock...I suoi "valori in sfacelo", come si dice, sembrano convivere con una situazione campestre - il gioco del cricket fornisce un tocco di parodia in più- fuori dalla storia e dal tempo. A proposito di musica rock...Credo proprio che quello di Baumbach sia un piccolo, grande film musicale nel ritmo delle scene, nel suo crescendo di disgusto e di emotività rappresa (le scene girate con la luce naturale, di notte, servono probabilmente anche a questo) che si riscatta soltanto con i dialoghi sotto tono, crudi e spesso taglienti ma quasi mai- come prometteva la confezione del film, ma ne ho già parlato- "divertenti".