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Marguerite yourcenar, “care memorie”

Creato il 16 novembre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Maria Gilli

Conquistata dal fascino delle “Memorie di Adriano” – senza dubbio l’opera più famosa di Marguerite Yourcenar -, ho voluto prolungare il piacere che mi aveva procurato questo libro con la lettura di “Care Memorie“, aspettandomi un racconto decisamente autobiografico.

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Marguerite Yourcenar – da armonte.wordpress.com

E difatti è proprio con la sua nascita che Marguerite Yourcenar inizia l’opera: “L’essere che chiamo io venne al mondo un certo lunedì 8 giugno 1903…“. Già queste prime parole ci colgono di sorpresa: è come se volesse ridimensionare l’importanza dell’avvenimento e sottolineare la distanza vertiginosa che separa la donna ormai anziana dalla bambina appena nata. Questa sensazione di distanza, di distacco, si accentua quando, alcuni paragrafi dopo, ci presenta la bambina: “la neonata fu lavata, una bambina robusta con il cranio coperto da una peluria nera simile a quella di un topo… e messa  nella bella culla di raso celeste sistemata nella stanza accanto” – probabilmente è Barbara, la giovane cameriera, che racconta -, non lasciando trasparire nessun cenno di meraviglia o di partecipazione emotiva.

E così, relegata, abbandonata nella stanza attigua dove “ogni tanto Barbara o Madame Azélie vengono a dare un’occhiata, poi ritornano in fretta dalla Signora“, la bambina scompare dal racconto e tutto converge verso Fernande, la madre, che dopo un parto molto difficile, sta morendo di  “febbre puerperale“; ricomparirà fuggevolmente solo alla fine del capitolo quando M.de C., il padre, ormai vedovo, ritorna a Mont-Noir, la casa di famiglia, insieme alla piccola e alla sua bambinaia. L’obiettivo, spostato, si è focalizzato su Fernande, e Marguerite Yourcenar incomincia a raccontare la storia del suo matrimonio fino al tragico epilogo.

Appoggiandosi a “briciole di ricordi ricevuti da seconda o decima mano“, frammenti di lettere, foglietti dimenticati qua e là nei cassetti, vecchie fotografie che si mette a “rabboccare“,  e soprattutto grazie a quella magia simpatica“, che era stata già così efficace nelle  “Memorie di Adriano“,  va incontro a sua madre, si cala nella sua psicologia e tenta di farla rivivere.  Fra quelle povere cianfrusaglie una in particolare attira l’attenzione della narratrice: è il “Souvenir Pieux” di Fernande – quello che più comunemente si chiama un “Memento”, l’immagine-souvenir che viene data ai parenti e agli amici in memoria del  “caro estinto” -, e sul quale Marguerite Yourcenar si sofferma a lungo. Peraltro, “Souvenirs Pieux” è il titolo originale del libro e la scrittrice gioca significativamente sulle ambiguità che il plurale conferisce a questa parola.

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La casa di Mont-Noir – da www.djibnet.com

Il ritorno a Mont-Noir, la casa paterna, segna una svolta nell’andamento del racconto. La storia di Fernande lascia inaspettatamente posto a una lunga cronaca familiare, la storia della famiglia di Fernande e, in poco più di quaranta pagine, scorre davanti a noi una carrellata di quasi cinquecento anni, fino all’arrivo a Suarlée, nel 1856, di Arthur e Mathilde, i nonni materni di Marguerite. Cresciuta con la famiglia paterna, Marguerite Yourcenar ha avuto pochi contatti con i parenti di sua madre e non sa praticamente niente né di lei né della sua famiglia materna : “Ero meno informata su di loro di quanto non lo fossi su Baudelaire…”, e quando, nel 1956, si reca per la prima volta sulla tomba di sua madre, non può che constatare:  “la sua tomba non mi inteneriva più di quanto non mi avrebbe intenerito la tomba di una sconosciuta…”. E così s’insinua in lei un’idea che prenderà forma solo molti anni dopo, verso la fine degli anni sessanta: mettersi alla ricerca della famiglia di Fernande, conoscerla, far rivivere tutto quel mondo di nonni, bisnonni, cugini, zii, il mondo di Suarlée per così tanto tempo estraneo, indifferente.

In questa lunga galleria di personaggi, alcuni occupano uno spazio più ampio. Mathilde, ad esempio, la nonna materna,  continuamente “ispessita dalle gravidanze“, come si deve in una famiglia di “buoni cattolici“; la sua storia sembra lo sviluppo  compassionevole della famosa frase di Virginia Woolf  “le nostre madri non avevano saputo curare i loro affari… le nostre madri che partorivano tredici figli a un pastore protestante di St. Andrews“. Oppure lo Zio Octave, autore di saggi apprezzati negli ambienti accademici belgi – la famiglia di Fernande è belga -; i giudizi di Marguerite Yourcenar sui suoi scritti sono piuttosto severi: il suo stile è ampolloso, artificioso, desueto, nella sua prosa abbondano le affermazioni benpensanti, i luoghi comuni. Eppure, sotto quella patina conformista, s’intravedono, qua e là, audaci, geniali slanci poetici che fanno di lui il precursore dei simbolisti e a Marguerite dispiace che Octave “non abbia potuto assistere al fiorire brillante della poesia belga, che aveva timidamente preparato“.

Poi, di nuovo, Fernande e il racconto della sua adolescenza. Marguerite Yourcenar ha sempre affermato di non avere sentito la mancanza di sua madre e lo ribadisce in  “Care Memorie“: “Io ritengo infondata l’asserzione che la perdita prematura di una madre sia sempre un disastro… Nel mio caso almeno, le cose andarono diversamente. Barbara per me non solamente sostituì la madre fino all’età di sette anni, fu lei la madre… e il mio primo grande dolore fu la sua partenza“. Eppure, è proprio con Fernande che si aprono e si chiudono “Care Memorie“. Semplice coincidenza?

E’ un libro singolare, accattivante, molto anticonvenzionale, nonostante il classicismo della forma e della scrittura. Peccato che il successo delle “Memorie di Adriano” e dell’”Opera al nero” lo abbiano un po’ oscurato.

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