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Maria Grazia Cutuli: l’eroismo del precariato moderno

Creato il 26 ottobre 2012 da Ilnazionale @ilNazionale

Maria Grazia Cutuli: l’eroismo del precariato moderno26 OTTOBRE – Venerdì 26 ottobre 2012 avrebbe compiuto cinquant’anni: Maria Grazia Cutuli, però, non potrà festeggiare perché, come tutti sanno, ha perso la vita undici anni fa, il 19 novembre 2001, quando in Afghanistan venne barbaramente assassinata. Un evento, la sua morte, che ancora oggi a distanza di anni ferisce le coscienze e che al di là della retorica, ci riporta inevitabilmente con la memoria a quelle terribili settimane “post 11 settembre”. Le cronache dal fronte di guerra dell’epoca erano fra di loro, per molti aspetti tutte simili, come da tradizione vista la diffusa abitudine (non condannabile, per carità) di molti inviati di scambiarsi le notizie al sicuro degli alberghi protetti dai soldati blu dell’ONU. Con poche e isolate eccezioni. Una di queste era senz’altro rappresentata dalla penna curiosissima di Maria Grazia Cutuli, che però proprio da questa sua indomabile curiosità è stata uccisa.

Originaria di Catania, la Cutuli ha fatto una gavetta lunghissima: La Sicilia, Telecolor, Centocose, Epoca furono le testate che la videro muovere i primi passi e poi crescere nel mondo del giornalismo. Arrivò nel profondo nord, al Corriere della Sera – una delle massime aspirazioni per i giornalisti italiani – a metà degli anni Novanta, accettando l’inevitabile compromesso di vivere a lungo come precaria. D’altronde si sa, il giornalista, per antonomasia, è un lavoratore costantemente precario e il suo caso non ha fatto eccezione. Anzi, questa sua condizione risulterà un fattore a dir poco determinante, nel bene e nel male, nella sua vicenda umana.

Il colloquio al Corriere convinse, nonostante il suo “chiodo” borchiato di pelle e quell’aria un po’ anni Ottanta di ragazza del Sud, il suo interlocutore a sceglierla fra decine di altre aspiranti giornaliste, probabilmente molto più “ripulite” di lei. La sua grinta, il suo desiderio di riuscire e riscattarsi dalla condizione non semplice che il solo fatto di essere siciliana le imponeva, l’aiutarono ad innalzarsi con il cuore ogni oltre tipo di ostacolo. E così, contratto a tempo determinato dopo contratto a tempo determinato (che non diventavano mai, per le leggi dell’epoca che favorivano questo tipo di rapporti di lavoro a livello fiscale, tempi indeterminati) la giornalista catanese cominciò ad accumulare importanti esperienze per la testata di via Solferino.

Già allora Maria Grazia era il talento che meritava di esplodere. Aveva una passione più forte e un’idea di missione della sua professione che dovrebbe essere insegnata, se si potesse, nelle scuole: voleva raccontare le storie che nessuno racconta ed entrare in connessione con le vicende che si nascondono nelle ragnatele della politica, della società, della guerra…della vita. Era il tipo di professionista in grado di sacrificare le proprie ferie, spese ad esempio a lavare umilmente le scale dei condomini milanesi pur di trovare i soldi necessari per pagarsi il viaggio per il Ruanda, in preda in quegli anni ad una lacerante guerra civile. Tornò dall’Africa con un pezzo meraviglioso che spiegava per la prima volta agli italiani cos’era il genocidio. Cos’era quel terribile, atroce, sterminato, inaudito genocidio perpetrato dall’etnia hutu su quella tutsi.

Perché è importante questo passaggio? Perché quando scoppia l’11 settembre tutti gli inviati “tromboni” del Corriere della Sera pretesero di andare a New York per poter raccontare con dovizia di particolari l’epopea eroica del “pompiere John” e delle tante vittime del disastro, mentre Maria Grazia – con il pragmatismo che la distingueva – fece esattamente il ragionamento contrario: “non serve andare dove le cose sono accadute, ma occorre andare laddove accadranno”. Detto fatto: si fece inviare direttamente in Afghanistan, perché immaginò (giustamente) che lì presto sarebbe scoppiata la guerra.

Maria Grazia Cutuli: l’eroismo del precariato moderno
Nel paese islamico, allora in preda alla terribile dittatura talebana, lei c’era già stata pochi mesi prima. Era, quello, un Afghanistan primordiale i cui simboli, i giganteschi Buddha scavati nella montagna, erano stati fatti esplodere per chissà quali oscure ragioni. Una ferita forse sottovalutata dall’Occidente, ma che, come presto la storia avrebbe chiarito, non era stato sottovalutata dalla Cutuli che si trovò a raccontare le storie più importanti di quel caotico periodo storico.

Quando infine scoppiò la guerra in Afghanistan qualche settimana dopo l’attentato alle Torri Gemelle, i vecchi “tromboni” pretesero questa volta di essere inviati da New York nella zona delle operazioni belliche e per far posto a loro Maria Grazia, che aveva appena realizzato uno scoop eclatante sul ritrovamento di una base di Al Qaeda con alcune armi chimiche di gas nervino (con tanto di prima pagina a caratteri cubitali sul Corriere) venne richiamata: “Bravissima, sei la migliore, ma ci dispiace, devi tornare!”. Ma si può chiedere una cosa del genere ad una giovane donna che aveva già dimostrato quel tipo di  carattere? Certo che no. E infatti Maria Grazia si rifiutò di tornare. Era finalmente laddove aveva sempre sognato di essere, sul fronte, e ignorando l’ordine proveniente da Milano decise di continuare l’attraversamento della frontiera e raccontare la tragedia di quello sterminato e sfortunato Paese. Una decisione che, però, si rivelò per lei fatale: qualche tempo dopo, proprio durante uno dei tanti spostamenti a cui si sottoponeva per raggiungere i luoghi da descrivere e le storie da raccontare, il convoglio su cui viaggiava venne fermato da una banda di predoni e lei, insieme al suo compagno (il fotografo spagnolo Julio Fuentes) e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari, venne fucilata sul posto. Aveva in quattro anni di collaborazione con il Corriere firmato oltre 300 articoli e l’allora direttore del giornale Ferruccio De Bortoli decise di promuoverla, alla memoria, “Inviata Speciale”: il sogno di tutta una vita realizzato post mortem.

Da quel momento iniziò – come da copione – la solita retorica nazionale, piagnona e stucchevole, che in Italia dura mediamente tre giorni: il primo in cui tutti la chiamarono per nome (come se l’avessero realmente conosciuta in vita) spendendosi in sperticate lodi, il secondo in cui vennero celebrati i funerali di Stato e il terzo giorno, dopo le esequie, la fine del tutto.

Nel tempo, poi, è passato pian piano il messaggio che la Cutuli volesse essere una sorta di “Fallaci dei poveri”, inviata indomita, stereotipo del guerriero a cui ci si vuole progressivamente avvicinare. Ma Maria Grazia non era nulla di tutto questo. Lei voleva andare a vedere con i propri occhi, le piaceva raccontare le cose per gli altri e soprattutto aveva un gran desiderio di vivere. Non era un’incosciente. È stata soltanto molto sfortunata. Può essere, quello si, descritta come una sorta di “eroina della precarietà”, senza il cui congegno diabolico (per cui devi riuscire a tutti i costi per poter ottenere l’agognato contratto) non sarebbe forse neanche mai arrivata all’attenzione dei predoni e a quell’esecuzione sommaria.  In questo senso è inutile nascondersi che l’Italia è un paese in cui spesso il talento deve entrare nel dramma per essere riconosciuto. A volte si deve addirittura morire per sentirsi dire: “Quant’era bravo”. La storia di Maria Grazia ne è, purtroppo, un lampante esempio.

Ernesto Kieffer


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