Di SONIA CAPOROSSI *
Leggendo la raccolta poetica di Mariapia Quintavalla I compianti (Effigie, ottobre 2013), si viene come invasi da un calore proveniente dall’humus di un retroterra tumido, innervato e debordante di odori e materia, sostanza che rilascia un marchio di sensazioni difficili da mandar via, sensazioni normalmente proprie della grande poesia. La versificazione è talmente immaginifica e densa che il lettore ben presto viene come avvolto da una sindone confortante e salvifica di autoriconoscimento personale all’interno di versi che non sono di fatto e non potranno mai essere suoi per storia personale. La poesia della Quintavalla consente al lettore un tale spostamento identitario perché dotata della mollezza diafana della trasparenza evocativa, da una parte, e della sostanziosa coltre dell’esercizio poetico diuturno, dall’altra; infatti, non possiede l’attitudine stanca e composta della piaggeria ermetica o dell’accomodamento classicista fine a se stesso, nonostante molti siano i richiami a una dimensione di poetica tradizionale, sia nei temi (la città natale, la famiglia, la dimensione del nido) sia in certe fluenze dello stile; la sua è, però, piuttosto identificabile con l’immagine metaforica di una poesia – tubero, che assorbe e dirama vita e patente evocatività tutt’intorno attraverso una concatenazione in genere e specie delle parole che tanto è metodica quanto non è mai crassamente tassonomica, nel senso di sforzata, elencativa di immagini e scuole; è infatti una poesia più spontanea della mera istanza classificatoria, è una poesia animale, elementale, che reagisce in un ritmo brachicardico all’infinita piattezza dell’humanum e nei confronti di questa sciatta normalità reagisce cogliendo l’eventum, l’improvviso barlume epifanico, “l’anello che non tiene” di montaliana memoria, in una continua e variegata scoperta fenomenologica di un reale connaturato alla propria storia personale e quindi, proprio laddove risulti inafferrabile per chi quel reale non l’ha vissuto, sempre più reale, vivido di turgore significante.
All’interno di questa nuova silloge composita, il rapporto col padre diviene relazione con un archetipo non mitizzato, ma di carne e sangue, un exemplum mondano di tangibile purezza, una mondanità quasi monda, perché pulita e ricomposta nel sudario del setaccio, nel filtro parestetico del ricordo. Il Padre e il Paesaggio Natale quindi si compenetrano come figurazioni di una ricordanza leopardiana pura, lungi il secondo dall’essere un mero correlativo oggettivo eliotiano del primo, giacché la Propria Terra assume le parvenze di un’imago in senso latino che, come suggerisce Bianca Garavelli nella postfazione (pp. 105-106), è macrocosmo e microcosmo insieme: “Parma è il mondo e al tempo stesso il nido”, un nido evocativamente pascoliano, che però si raggruma attraverso una plasticità manifestamente ultramoderna, nella circolarità di un richiamo nostalgico alla dimensione duale, triadica, polittica della famiglia. Se nel precedente romanzo in versi China, uscito nel 2010 sempre per Effigie Edizioni, l’anelito nostalgico era incentrato sulla figura della Madre, se nell’ancora precedente Album Feriale, uscito per Archinto nel 2005 (per il quale Franco Loi associò criticamente le procedure poetiche ivi contenute a Patrizia Vicinelli e Amelia Rosselli) l’onphalos era il quadro familiare al completo, ne I Compianti il fulcro evocativo è invece rappresentato dal Padre, la cui drammaticità è data dal contrario di un Pater Patratus di crudele memoria, bensì dal ricordo di un genitore dolce, un pilastro reso dalla figlia ormai nella propria orizzontalità immota, cristallizzato e cristificato nell’immobilità di una morte eternatrice ma non eternata, quella tipica della funzione perpetuante dell’arte attraverso il ricordo, e quindi idealizzata nell’archetipico distacco di una iconica ed icastica Deposizione (p. 43):
“Io l’ho tenuto in braccio,
gorgogliava entro la testa il sangue,
gli occhi aperti sognavano
di noi piccoli, esclusi;
dal nido io l’ho cullato, cambiato di vestiti,
visto nudo
le gambe belle già riposte in grembo,
il gesto aperto a croce,
negli occhi verde ceruleo l’ultimo battito
fluiva a oriente;
dal cervello il sogno d’essere tra noi
nell’amorosa sosta che lo volle
spaurito e solo,
lui a t t e n d e v a
nella casa da generazioni, i frutti suoi
ritrosi, disertati.”
La morte qui diviene quasi imbalsamata nella presa di distanza platonica della copia della copia, ovvero plasmata in un classicismo rivissuto all’interno dell’idealizzazione artistica attraverso i riferimenti plastici a Guido Mazzoni e a Correggio. E tuttavia, sono statue di carne e dipinti di sangue, quelli che ammiccano e occhieggiano riprodotti in bianco e nero fra le pagine del libro: nel connubio estetico e teoretico quintavallesco della poesia e dell’arte figurativa, non c’è un richiamo che sia forzato, non prende luogo una singola forma di paragone che sia ostentata. Parma, la città natale sullo sfondo, offre non solo la propria arte, ma anche il proprio incarnato vivo e crudo, non è città che muta assiste senza significazione e senza la Parola, anzi, è la culla all’interno del cui alveo fluviale immobile, in una sorta di eraclitea contraddizione, riposa la dimensione identitaria dell’Auctor e, in questo senso, è latrice interiore del suo Logos. Come già accadeva in China, la forma formata del memoriale familiare traluce di barbagli paesaggistici, ma niente è stereotipato, bensì avvoltolato nella confortante e mai stralunata iperrealtà di un istante (p. 65):
“Come potere trattenerti,
come la linea dei salici, in estate
che ondeggia ma sta ferma –
e vaga assume
il senso ed il colore (lieve)
di un grigiorosa che trapela, ansima svela
nel cadere la sua natura ancella
e in più ritrosa, dolceamara.”
Finché l’anelito alla significazione si eleva benedetto da una grazia e da un decoro del versificare veramente evocativo di uno stilema rinnovato: le parole peregrine di leopardiana memoria, come nelle seguenti “tenerezze grate” (p. 66):
“Come potere trattenere,
come la luce –
quel flettersi genuflesso delle foglie
e rami sollevati
dal dovere di gravità che toccano
in tenerezze grate, dal sapore dolce
che comunica col cielo –
come chi confina.”
E allora i congedi di cui si parla nella terza parte assumono un sapore più terrestre, nell’accenno classico al viaggio dei morti, al Padre che dalla fissità immobile della morte, del sepolcro e del ricordo si rende novello Ulisse, insieme giustiziere e condannato all’eternazione perpetua del suo stesso nostos, percorso di nostalgia familiare biunivoca, tale che, paradosso solo apparente, colui che parte per l’estremo viaggio è un perpetuo partente per se stesso, ma per i suoi cari non è partito affatto e non partirà mai (p. 68):
“Padre che non sei mai partito affatto,
ma viandante ci sorridi additando
in un gesto più segreto il riso
o uno scongiuro,
dalla camicia bianca spezzi un giorno
arioso e lieve come un’ostia calma
che sa di carta e pane, che fa luce,
poi ci accenni che vivere e deambulare
sono la stessa cosa”
In effetti il riferimento odissiaco non appare solamente come il frutto di una mia invenzione critica, giacché richiami al mito classico ritornano più volte con magistrale leggerezza descrittiva (p. 77):
“Resterò giù a lato, stai tranquillo
Padre fedele (dal silenzio al mito
All’abiura), padre debole
Alle caviglie e ai polsi, che non so più dire.
Non mentire una volta non l’ultima,
lasciami dire, oh così
bianco vestito dai calzoni corti;
fa più bene viverti da anziano ora,
Ascanio io, e tu il corpo di Anchise”.
E qui, proprio nascosta in mezzo a questi versi, sembra baluginare una vera e propria epifania critica, uno di quegli istanti in cui la chiave mallarmiana del poema sembra girare nella toppa, nel momento esatto in cui scopriamo che dietro la porta non c’è un significato univoco da dare una volta per tutte, ma il senso stesso delle cose messo a nudo. Infatti, come si legge pochi versi indietro, il Padre, il Padre biografico che trapassa nel Genitore Archetipico, fulcro di senso e significato che raggruma la sintassi ovattata della narrazione poematica dei Compianti, è qualcosa che ad un certo punto la poetessa – figlia “non sa più dire”: come se descrivere l’essenza poetica di un tale romanzo familiare in versi, peraltro compiutamente sviluppatosi all’interno di una trilogia di siffatta densità immaginifica e comunicativa, fosse cosa che non compete non solo alla semiotica, non solo alla critica letteraria, ma neanche alla poesia stessa: “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, direbbe Wittgenstein, eppure la Quintavalla risponderebbe: “di ciò di cui non si sa più dire, si deve poetare”; giacché qua, piuttosto, sembriamo sostare non più nel campo della logica o della dimensione del dicibile, ma nelle profondità decidibili della filosofia estetica in cui cadiamo a picco come Alice nella tana del Bianconiglio, laddove l’indagine precipua, a causa della commistione dei generi letterari ed artistici tentata dalla Quintavalla nei suoi Compianti, si fa immediata, aurorale, percettiva. Questa è poesia che si coglie solo col sentimento immediato, è poesia che ci rende tutti apparentati nello stesso affresco di famiglia, è poesia che non ha altro ponte fra intelletto e ragione dell’aisthesis: così, mentre la leggiamo, ce ne facciamo una ragione per poi abbandonare la ragione stessa, scarnificandoci l’intelletto: diventando tutti Figlia, riconosciamo dentro di noi il Padre.
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* Recensione pubblicata su Atelier, n. 78, Anno XX – giugno 2015, pp. 89-93.