Chi è Marie Möör? Pittrice, body artist, scrittrice dandy e icona d’un rock fuori dal conforme – esplosa a metà anni ’80 come performer e musa di Barney Wilen, un jazz man francese dalla vita mitica e maledetta – e poi dimenticata, tanto che una decina d’anni fa dichiarava in un’intervista d’esser morta di buon ora, e che nessuno se n’era accorta.
Non ne avrei parlato in questa sede se nel 2010 la francese non avesse deciso di ri-creare con sfrontatezza e intensità nuovi “videoclip” dallo spiccato gusto “sperimentale”, per alcuni dei suoi singoli di maggior successo. Je veux, Beau Masque, La vie repond, Ou bien quoi i titoli di questa pratica esponenziale di riscrittura, opere di secondo grado elaborate lavorando direttamente sulla superficie digitale, a stretto contatto con lo schermo che più di tutti oggi ci fa da interfaccia virtuale con il mondo. Marie Möör riprende attraverso uno schermo di pc, filtro opaco impiegato per creare opere alla seconda, nate solcando da vicino e ossessivamente una materia costituita soprattutto dal suo stesso corpo-icona, intrappolato in uno spazio-tempo lontano.
Poche inquadrature e un montaggio che ritorna spesso su se stesso. Un insistere sullo stesso gesto più volte riproposto, un ricominciare dallo stesso fotogramma per ripetizione ossessionante, sulla via dell’immobilizzazione da still frame e percorrendo da vicino una grana tutta digitale.
Nella dialettica conflittuale e irrisolta tra l’hd e la low definition, Marie Möör opta per la qualità apparentemente più bassa, quella depauperata d’illusione di realtà, con la grana numerica tangibile, e un atteggiamento nei confronti dell’immagine che si riconcilia con lo spirito punk delle sue origini.
Intimità e seduzione. È la voce a rimanere padrona dell’opera, calda e meditata. Ma quell’erotismo dello sguardo, reiterato con fare minimale e su cui si sofferma l”azione creatrice di Möör, propone uno scarto significativo all’esperienza della visione: un corpo a cui viene impedito di seguire le leggi d’una cronologia regolare, un movimento interrotto e rimandato all’origine, un corpo alienato dalla sua capacità di compiere un gesto fino alla fine, sono l’esuberante surplus di una pratica dell’eterno ritorno, degna d’uno spirito tragico e commovente.
Da quegli anni ’80 in cui, grazie a Barley Wilen, fa uscire alcuni 45 giri ammiccanti e provocatori come Prends-moi Prends-moi o Je vais mourir sauf accident, più recentemente Marie Möör si è avvicinata al poema musicale, alla poesia sonora, prestando voce e corpo ad una visione del mondo d’un eroismo post-romantico che si allontana sempre più dal presente.
C’è una continuità tra un brano e l’altro, una vertigine fatta d’amore, d’eros alla Sade e di presagi di morte. Möör, per sua stessa confessione, (si) canta più o meno sempre la stessa canzone, e aggiungerei, si gioca più o meno sempre con lo stesso corpo, il proprio, dalle turbolenze sonore e cariche di sottile angoscia di La vie repond al clangore quieto e al lirismo dalle tinte cupe di Ou bien quoi, fino a Je veux, il pezzo più struggente, un poema elegiaco più volte riscritto negli ultimi anni, opera aperta passibile di cambiamenti di tono e di testo in base alle declinazioni effimere del desiderio.
L’anatomia amorosa e trascinante di Beau Masque è un lancinante rivedersi attraverso uno specchio perturbato, irrisolto. Nell’impossibilità dell’identificazione, si pone sulla via della scomposizione, dell’accanimento del desiderio dei sensi sulla carne, materia plastica intaccata dal gioco delle dita su tastiera, rivitalizzata dallo sguardo a bassa definizione dritto in faccia a chi ti apparteneva, a chi non appartieni più per consunzione, maturazione, metamorfosi.
La dolcezza malinconica di Spartacus, con un corpo che cade ripetutamente e la barra di youtube ben identificabile all’interno del quadro, è concepibile, nell’ottica della visione, come un meccanismo ad incastro, video-grafia concepita essenzialmente per il web stesso.
Ci sono un paio di antecedenti da rimarcare, poiché imparentati da uno stesso procedimento compositivo. Il primo è Wild dogs and lady, un “corto” di Barney Wilen del 1987, dove tra found footage e sax, la Moor è al centro della scena, carica di un erotismo giustificato anche da una simbologia fallica-bellica non troppo celata nelle immagini scelte da Wilen.
Poi c’è la prima versione, inedita, di Beau Masque, datata sempre 1987, in cui il lavoro sul dispositivo è già rimarcato. Una mise en âbime, la ripresa di uno schermo televisivo e quello stesso corpo da musa perturbante e intemperante incastrato nella concavità di un tubo catodico.
Contro la sofisticatezza del dispositivo, e attraverso un corpo a corpo emozionale, sensazionale, fisico, tra materia filmata e occhio che registra, la visibilità estrema dell’artificio dell’immagine è ciò che esalta e glorifica le opere di Marie Möör, intensi poemi audiovisivi che per forza carismatica e dirompente estetica stridono con la semplice definizione di videoclip musicali.
Salvatore Insana