Marilyn Monroe non fu uccisa da un sicario della mafia né da qualcuno desideroso di fare un piacere alla famiglia Kennedy, ma la sua morte fu il risultato di un incidente casuale e non nuovo nella vita della bionda più esplosiva di Hollywood. Queste le conclusioni a cui è giunto il giornalista britannico Keith Badman dopo aver analizzato scritti, interviste, libri, pubblicazioni, registrazioni, testimonianze e ogni traccia dell'esistenza di Marilyn, persino scontrini di acquisti nelle drogherie e le fatture dei fabbri che cambiarono le vecchie serrature nella villetta in stile messicano acquistata dalla diva poco prima della sua scomparsa.
Cinque anni di investigazione "matta e disperatissima", come potremmo definirla citando Giacomo Leopardi, che sono tutti condensati nel volume The Final Years of Marilyn Monroe (2010) pubblicato in Italia dalla Rizzoli nel 2012 con il titolo Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe e la traduzione di Cecilia Montani.
Badman ci racconta di Marilyn i dettagli della sua nascita, avvenuta nel lontano 1 giugno 1926 al Los Angeles General Hospital, e dell'infanzia, che fu ben lungi dall'essere dorata tra famiglie affidatarie, una madre incapace di gestirla e che probabilmente cercò di ucciderla, molestie da coinquilini, orfanotrofi e, all'età di sedici anni, il matrimonio con un vicino di casa, Jim Dougherty. Matrimonio che durò solo due anni. Nel 1946, infatti, Norma aveva già divorziato e stava calcando le scene di Hollywood. Sembrava, però, ben lontana dal diventare una star destinata al successo planetario: licenziata a ventidue anni dalla Fox e a ventitré dalla Columbia, l'attrice non godeva certo di buona reputazione ("Se si osserva Marilyn, ci si accorge che non è bella, ha un brutto naso, un brutto portamento, un fisico banale. E un profilo sgraziato. Il suo sex appeal è fasullo", disse Leon Shamroy, direttore della fotografia che le fece i primi provini). In più Marilyn iniziò a unire all'alcool, le cui sirene l'avevano già da tempo ammaliata, anche gli psicofarmaci che sembravano riuscire a placare la sua ansia e la paura di non farcela, di non essere all'altezza.
L'alcool e gli psicofarmaci ben presto ne influenzarono pesantemente la personalità: alla luminosa e spumeggiante diva capace di incantare tutti si alternava l'irascibile e triste bionda capace di dare in escandescenze per nulla e di passare ore nascosta nel suo camerino, perché terrorizzata dalla macchina da presa.
Dopo i successi planetari di Quando la moglie è in vacanza (1955) e A qualcuno piace caldo (1959), la sua carriera stava attraversando una fase di stallo, ma anche la sua vita sentimentale non era in condizioni migliori: Marilyn infatti aveva appena divorziato da Arthur Miller, scrittore e intellettuale. Era la terza separazione e seguiva quelle da Dougherty e dal campione di baseball, Joe DiMaggio.
Nonostante tutto e tutti, forse proprio per via della sua infanzia così difficile, Marilyn aveva comunque sviluppato una resilienza invidiabile ed era pronta a tornare in scena alla grande alla fine del 1961. Aveva trovato la sceneggiatura che poteva fare al caso suo in quel Something's Got to Give che, a causa della sua morte, non venne mai terminato. O per meglio dire era stata costretta dal contratto che la legava alla Fox a trovarne una "interessante", perché, ci racconta nelle sue pagine Badman, Marilyn voleva sì tornare sul grande schermo, e recuperare un po' del successo dei tempi d'oro e che non aveva replicato con le ultime due pellicole, Facciamo l'amore (1960) e Gli spostati (1961), ma il legame con la major ora le andava stretto e Something's Got to Give non le piaceva per nulla: ne contestava difatti un po' tutto, dalla sceneggiatura agli sceneggiatori, dal coprotagonista (Dean Martin) al regista (George Cukor).
Quando finalmente si decise a girare il film, non si sottrasse dal manifestare in più modi la sua frustrazione e la sua insoddisfazione, e, sempre secondo Badman, anche il suo terrore di non essere adeguata al compito. Le riprese vennero interrotte più volte, per periodi più o meno lunghi e Badman racconta che Marilyn rifiutò di incontrare persino lo scià di Persia e la moglie in visita agli Studios espressamente per conoscerla. Ad avere la meglio su Marilyn non furono né la sinusite né l'influenza, ma la fobìa di non essere bella quanto Farah Diba, consorte dello scià. Perché, nonostante le interviste rilasciate sulla felicità di essere arrivata a trentasei anni, su quanto la vita le offrisse ancora molto, innegabilmente la sua stella non era più così splendente: nuove star apparivano all'orizzonte e il tempo stava facendo il suo corso.
Così in Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe appare una Marilyn che passa da picchi di entusiasmo per i nuovi progetti (una casa di produzione cinematografica con Marlon Brando, un musical a Broadway, la casa e il giardino a Brentwood da sistemare) a momenti di sconforto a cui, nell'ultimo periodo, i fratelli Kennedy contribuirono. Anche in questo ambito Keith Badman ha fatto delle ricerche estese e ha vagliato diversi elementi dicendo la sua verità che è meno scandalosa e scandalistica di quella di molti libri e di molti articoli pubblicati sull'argomento: quella dei Kennedy, sia del presidente John Fitzgerald Kennedy che del ministro della giustizia, Robert Kennedy, fu una passione passeggera per la stella di Hollywood, soprattutto allorché si resero conto della sua fragilità.
Molto probabilmente Marilyn passò una notte con JFK, neppure così esaltante per lei, ma definirla una storia d'amore sarebbe un'esagerazione. Quel che è invece certo è che gli incontri più o meno estesi con i fratelli la esposero a una serie di informazioni che lei a un certo punto, piccata per essere stata scaricata da entrambi, minacciò di rivelare e che questa possibilità rese nervosi i Kennedy e il loro entourage, ma non al punto da commissionare il suo omicidio. Forse solo al punto da ritardare la chiamata alla polizia di qualche ora la notte in cui Marilyn se ne andò, giusto il tempo necessario a cercare un "famigerato" libretto rosso in cui l'attrice diceva di scrivere tutto.
E così si arriva alla famosa notte, quella del 4 agosto 1962, in cui Marilyn probabilmente non fece altro che compiere gesti per lei usuali (circostanza che esclude anche l'ipotesi del possibile suicidio): prendere manciate di pillole (John Huston che l'aveva diretta ne Gli spostati ricordò che in un giorno poteva assumere fino a venti pillole di varia natura annaffiate da liquori vari), aggiungere, appunto, alcool e cercare di dormire.
Le ultime pagine del libro di Badman sono quelle più intense, più sincere e più umane, in cui prevale il senso di desolazione e di smarrimento di fronte alla triste fine di Marilyn, ma anche l'immensa dimensione umana di Joe DiMaggio, il secondo marito dell'attrice che, sempre innamorato della sua "ragazza bionda", cercò in ogni modo di starle accanto e continuò a farlo, a suo modo, anche dopo la sua morte. Quel Joe che alla domanda sul perché avesse impedito la partecipazione di quasi tutta Hollywood ai funerali di Marilyn riuscì a sibilare, tra il dolore: "Queste sono le persone che l'hanno uccisa". Quello stesso Joe che secondo le parole del suo avvocato e confidente, prima di morire nel 1999, trentasette anni dopo l'attrice, pare abbia mormorato: "Finalmente potrò rivedere Marilyn".