Cantico di sta
4.
così si dice pianga la lucciola
quando la manna si fa spazzatura
presso la porta dorata del folletto.
il bimbo gioca a se stesso da piccolo
ma non lo sa e non è felice appieno.
si sa che è uno zero lunatico questo
tuo perno senza cibo sfinito nella ruggine.
nella sabbia che fatica le staffette
corre la fiamma a cercar di amare
le zuffe di ferrosi amanti.
in un duetto di fragole di maggio
invento le gole di fratelli golosi
così noiosi da sembrar gemelli.
l’arena di truppa non fa finir la guerra
né la buona cucina invita qualcuno
per esorcizzare il rantolo.
la pagnottella con il prosciutto è leccornia
da altare. tu inventa una steppa che
sappia grilli parlanti come le gemme
delle favole. dividi con me questo
cimitero acquatico di fuoco. io non
voglio chiamarmi più marina né in altro modo.
5.
ho imparato a giocare con le statue
in grandi mari a tuffarci insieme
inguine di donna la marea
sotto la guerra di perdere i bambini
in preda alla resina dei barbari.
in mezzo all’avarizia della bara
sono rimasta cenere sgraziata
dai sassolini dei venti più potenti.
in mano alla paglia dei falò
da viva imparai le ceneri
le belle faville che non smettono.
i cortili dei vivi avevano altarini
acquitrini per i pesci rossi
non peccatori i miti degli amori
aperti a mo’ di libri sui davanzali.
in barca sulla fronte dell’anarchia
la chela del granchio non osò toccarla
anzi si ritrasse per un fido di elemosina.
12.
mia madre è morta di strano cuore
una maretta intrisa di preghiera
la mia di sapida bestemmia
dove la pietà si annulla in urlo.
in un covo di rettitudine blasfema
ho sopportato l’agonia la gogna
dell’attesa e il silenzio finale.
con un pellegrinaggio di lenzuola
la giornata si fa atroce come la purea
di tutti i giorni e le cibarie pessime.
escludo da me la veglia della gioia
questa vanga di fanga e di gran fuoco
quando i fiori si gettano per terra
a piramide profumata. si toglie tutto
anche la croce per la cenere maligna.
resti o svapori poco importa alla baldanza
di lucciole letargiche e fuochi fatui.
i lavori degli uomini continuano
a trasportare morti per furti futuri.
si ruba ai morti tanto non costa niente
e la baldoria non barcolla un attimo.
14.
vado all’espatrio ogni notte
con un tatuaggio nel cervello
botta e risposta senza fine
la mia carriera visitata da ferri
arroventati. nei denti un faro
di conchiglia. una perplessa
aurora quanto un cimitero
divelto. miserere del respiro
continuare la scansione del
tempo. vocativo d’estro volerti
accanto. camminami sul petto
abbi pietà del mito che ci rese
fragili. passa la vendetta un canestrello
di vespe. la grazia occulta della siepe
è un buon cammino nonostante
non sapere l’aldilà. incudine di putti
verremo uccisi tutti.
18.
quale sarà l’occaso che mi stroncherà
il viso. la giostra sarcastica che non giocherà
pietà. mano alla nebbia forestiera
si chiude il parnaso dei cipressi
i pioppi segaligni che sanno stare
al fianco della gara dei ribelli.
in tutta gratitudine voglio chiamarti
amore segno di velluto per la notte.
invece la guerra è alle porte dove
si disprezza il giorno. in un fagottello
di ghiande ho messo via chi sono
una manciata di eremi dismessi
dove piange la fanga abbandonata
l’indirizzo illusorio sul palmo della mano.
21.
scansione di autunno le foglie
che vegliano l’amore restio
sul greto della voglia di morire
incudine e martello un solo trespolo
per allontanare la furia della luce
e l’ìndice a cimelio della scorta
d’ombra. bravura già sarà non aver
malore né languore di tirannide la
trottola incapace di pietà. tu dammi
un angolo di cipresso una leccornìa
per la vergogna di esistere e la stazione
dentro l’occhio pavido di dadi da lanciare.
me includi l’arena della giacca per un gioco
di cristalli con le domeniche fangose
sotto guanciali nebbiosi, tragici.
il grappolo di mimosa è fregato
dal fischio del vento senza avvento
nel chiodo dell’orecchio saturnino
nomea di sé giammai l’armistizio.
26.
mi va di crollare nel fantasma
ascesi finalmente senza asma
né manuali per restare
nonostante il lutto che spalanca gli occhi.
in fatto di cornucopia ho perso il nome
presso la cantata infernale della fanghiglia.
tu che piangi le aureole ventose
del sacrestano le pulizie sacre
senza morto da celebrare.
con le borchie sulla spada dell’angelo
voglio giocare agli inseguimenti
tanto per farmi amare un po’ di più.
in palio alla materia del contendere
sto giù da tempo senza museruola
né crolli di comete fratellastre.
strazio e cipiglio questa anestesia
non buona al dolore che si ripete
fratello di iena colmo di bestemmia.
mia la manciata degli sterpi
volitivi al massimo della furia
dove si addentra la madre senza figli.
33.
la bisaccia della rondine non basta
a trasportarti da me. l’inguine della meridiana
inventa un amore per tramortire
le paludi. indagine corsara starti a sbirciare
per ciarlare il verbo di rincorsa
inventando la guardiola delle gioie
inesistenti e vane.
giochini di comete nei bambini ciechi
quando la bussola connette le onde
per divertire quegli occhi spaesati
riuniti sotto buio. la marea del discanto
scaturigine le nenie poverette
le turbe scure di chi piange sempre.
prestato Olimpio starti a guardare
da sotto le tenebre del fato
tanto per giocare con la terra smossa
riordinando i fiori all’insaputa del grano.
giorno notturno la spocchia del pipistrello
quando i cattivi paventano i morti
e le notturne spole delle lucciole.
l’indarno fa con me la vita nera
l’apostolo diavolesco degli sterpi
dove si fanno asole cucite per far
restare il petto aperto al vento.
39.
invecchia la primavera in un arancione di gambi
la briciola del passero avvera la pietà
se da domani scricchiola l’inverno
e il paese doma la cicala
patriottica e ribelle.
di già palese l’eredità tombale
quando chiunque tace sulle sevizie
subìte in età solare. la massima mansione
è sanatorio d’astio quando qualora qualcuno
sorride d’ilarità finale. gaudio da scoglio
somigliare l’angelo traguardo nel dado fido.
il tutto il mio saluto arriverà premura d’angelo
finalmente la gerla di una mole di fiori
dove qualcuno riderà ragazzo
ed io simile sarò. scherni d’innesti non saranno
i fratelli trascurati dalla baia del porto
dove si foggiano gli orfani. tamburi di norme
le direttive del cielo o la barzelletta blasfema.
42.
resisto da sola in campo corto
in un assesto di storia quasi sbornia
per uno svilente anfratto senza abbracci.
brancolo una neve che mi dia rispetto
un aspetto smilzo per le rondini
finalmente una gincana credula
dove addormentare il tempo.
un urlo bonario di civetta
accrediti il lunario presso dio
con la risposta in apice di cielo.
qui a me di spalle c’è un diamante cieco
valore letargico e mortale. accanto
a un amante mansueto s’issa
la stazza del verdetto.
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-1955.
Ha pubblicato i libri di versi: IL GIORNALE DELL'ESULE (Milano, Crocetti, 1986), GLI ANGIOLI PATRIOTI (Milano, Crocetti, 1988), ACQUERUGIOLE (Milano, Crocetti, 1990), "DARSENE IL RESPIRO” (Milano, Fondazione Corrente, 1993), LA DEVOZIONE DI STARE (Verona, Anterem, 1994), LE ARSURE (Faloppio, CO, Lieto Colle, 2004), L'ACCIUGA DELLA SERA I FUOCHI DELLA TARA (Lecce, Luca Pensa, 2006), DALLO STESSO ALTROVE (Roma, La camera verde, 2008), L’INCHINO DEL PREDONE (Piacenza, Blu di Prussia, 2009), IL SOLICELLO DEL BASTO (Roma, Fermenti, 2010), RICETTE DEL SOTTOPIATTO (Nardò, Besa, 2011). Le plaquettes "L'impresario reo" (Tam Tam 1985) e "Un cartone per la notte" (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); "Le giostre del delta" (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004).
Stanno per uscire: La giostra della lingua il suolo d’algebra, Edizioni Smasher, 2012 e Un gerundio di venia, Oédipus Edizioni, 2012.