Marina Pizzi - Plettro di compieta - Lietocolle 2015
Compièta, nella Liturgia delle Ore della Chiesa
cattolica, è l'ultimo atto di una giornata di preghiera, dopo i Vespri.
Si recitano salmi e si cantano inni prima di andare a dormire. Domani è
un altro giorno, e si ricomincia da capo. Ma se per caso il domani non
dovesse arrivare, l'anima sarà salva. E' dunque una metafora del
compimento di una vita ammodo, almeno dal punto di vista dell'anima,
cominciata con il mattutino, all'alba, una specie di ri-nascita.
Non so se Marina Pizzi avesse in mente qualcosa
del genere quando ha raccolto questo libro, pensasse di "suonare" a modo
suo, col suo plettro, una parabola che si avviasse a qualche
compimento. Ho qualche motivo per dubitarne, come pure del fatto che in
questa poesia lei intenda trasfondere una serenità benedettina. Non
escluderei invece una vaga allusione a qualcosa d'altro, una pietas di substrato che dovrebbe essere di ogni poesia. In fondo le speculazioni sui titoli espongono a qualche pericolo di misunderstanding,
proprio come avviene in finanza. Mi sembra invece più significativo il
sottotitolo, "Novantanove poesie 2008-2014", che credo racchiuda un paio
di indicazioni, una sul carattere di "raccolta" o canzoniere,
abbastanza insolita per Marina, che a sua volta stabilisce dei confini
temporali, un prima e un dopo; l'altra sul costante fascino che i numeri
hanno su di lei (quel "novantanove" ammetto mi ha fatto sorridere), con
la loro infinita serialità (e infatti non vale dividerli in quattro
sezioni come in questo libro) e - infine - l'eternità che racchiudono in
sé. Spessissimo infatti i suoi libri sono un insieme di testi
numerati secondo la serie cardinale che lasciano sempre una sensazione
di work in progress, di qualcosa che termina solo
momentaneamente. Del suo stile, della sua scrittura, del suo sistema
metaforico e immaginativo ho scritto in diverse occasioni (è possibile
recuperare quegli interventi, che vi invito a leggere, tramite questo TAG), e qui aggiungerei solo alcune cose. di rinterzo.
Per quanto possa apparire strano, per me e per chi
conosce Marina, la prima cosa che risalta è la vena lirica che
attraversa tutta la raccolta,e mi pare che le poesie che ho scelto lo
dimostrino. E' apparentemente qualcosa di inedito, che tuttavia
tornerebbe con quello che si diceva del titolo, cioè come un modo di
ripensare le cose sul far della sera (e a ben vedere questa vena, molto
ben mimetizzata, è riscontrabile in tutto il suo lavoro). Mi pare nel
complesso che la nota agra e "arrabbiata" che persisteva nella poesia di
Marina, la sua diuturna lotta con il mondo, con il malessere del
vivere, con le delusioni e le perdite, in questo libro si siano
variamente mitigati, non per rassegnazione ma forse per una diversa
coscienza di un limite intrinseco alle cose, alla vita stessa contro cui
alla fine è inutile continuare a sbattere, per il riconoscimento di una
qualche sensatezza nelle cose che accadono, di una loro leggibilità.
Certo, il linguaggio continua a richiedere al lettore la dovuta
attenzione, continua la lotta di Marina con le parole per estrarne con
certa violenza l'indicibile, anzi per addossare ad esse una ulteriore
significanza, una responsabilità, forse una colpa; continua il
coagularsi dei testi intorno a parole feticcio (animula, ascia, gerundio, cipressi, meringa ecc. che non di rado
rimbalzano da un testo all'altro, e a volte deragliano) e in brevi ma intense immagini in cui
l'occasione (l'ispirazione) si contorce in visioni spesso di un
surrealismo inquietante alla Max Ernst, ma sostenute da un
sottofondo musicale segnato da non rari endecasillabi o almeno dalla
scelta di sonore parole piane in chiusa del verso. Dal punto di vista
della lingua poetica Marina non è mai stata una autrice "facile", come
certo non lo era quella che ritengo il suo nume tutelare, Amelia
Rosselli. E' sempre necessario, leggendola, cercare di individuare un
nucleo, una associazione per quanto astratta, una metafora in genere più
concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica ("mia madre è
stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di vita"), il
suo linguaggio è - mutuando il concetto dall'informatica - di basso livello,
cioè molto vicino alla "sorgente" del pensiero, umano o di macchina che
sia, ma anche ad una percezione quasi nervosa del dolore e della
"privazione" (intendendo questo termine in senso ampio).
Certo questo non significa che quella di Marina sia "solo" una scrittura effusiva, sorgiva o "automatica". Credo che ci sia dietro anche un intenso lavorio, spesso ansioso e insoddisfatto, ma che questo lavorio consista appunto (e qui forse sta il suo valore di ricerca) nel mantenere un equilibrio, in bilico sul fulcro di quel livello espressivo di cui dicevamo, tra "sorgente" e comunicazione, un equilibrio che sembra per lei vitalmente necessario, al di là di eventuali compromessi con chi legge. Se c'è un punto critico, come ho scritto altre volte, è quello di una serialità stilistica, di una "maniera" o modulo replicabile, una specie di labirinto borgesiano di cui i compatti testi di Marina costituiscono le pareti. Ma forse anche quello è a sua volta significativo di una impossibilità, di una mono-tonia del tempo, di una invariabilità, di una "meccanica" dell'esistenza. O forse è solo un modo di vivere (e di vivere la poesia) a cui è difficile sfuggire. (g.c.)
37.
con segni di percosse
ho fatto incetta d'ombre.
non dorma la luna
non dorma il pipistrello
nella sconfitta animula del sole
che rinchiude il petto e inciampa
alle persiane. duttile perno,
chiavistello d'anima,
scendere le scale con rumore
nonostante sia morto il brevetto.
41.
accludimi al silenzio
al lesto sillabario che
non ci racchiude, sposami
di forza sopra la zona franca
allorché l'alone si fa
fato di corda, dondolio dimesso
stuoia per un fachiro pieno
del sogno della veglia.
imbrattami il costato con il comando
a casa la prigionia del sale
con le pestifere sfere del dolore
stoppia in fase di falò.
51.
respiro un angelo con il diario in faccia
la luce sotto spoglie di rugiade
quella la diga con la voce del padre
morente, e le lentiggini bambine
senza amore, tra le spirali
d'ansia e l'ecumene culla.
cura del salto spargere la voce
verso il sodale strato della terra
terriccio universale starci accanto.
54.
ho perso la mia storia
in un romanzo di appendice
dove l'incrocio è vuoto
e l'oasi nerastra. ho perso tutto
in un circolo d'inedia.
la corsa ai sacchi è stata vinta
dal primo della classe sull'ultimo
per un soffio. la solita fortuna
borghese delle stoffe di broccato
sulle tumefatte aurore. in pace
col gelo le disfatte dei calcoli
metropolitani. tale e quali i pendoli
delle nonne ora nei nervi delle lapidi.
64.
sono stata sott'acqua per un giorno
quasi parlando con il panico di turno
e la festicciola delle alghe intorno.
sono stata sotto pira per un giorno
rischiando il fuoco che comprende
sempre demente la cenere allo smacco.
sono stata in aquilone per un giorno
nomando amore come un trancio
marcando il cielo con fili di respiro.
sono stata patriota della curva
sotto randagi attori di vedetta
col sillabario al vaglio del setaccio.
73.
dove andrò a fingermi narciso
tra le certezze del pendolo che vince
e le giunoniche schiume dell'oceano?
tu dappresso non mi conservi amiche
la stralunata pressa di vulcano
né le taniche aride del seme.
balìa alla calura sarò l'avanzo
per le liriche nude delle chele
che imbrattano d'affanno e fanno
male le rondini combriccole e le corse
naturali per vivi di vegliarsi.
il mantice d'atleta non darà soccorso
né tanto meno un apice di birra.
79.
la dignità di una faccia
è stare in faccia al vento
starci di ferro con il salino
addosso. e piangerne lesta
la compagine di giro sotto
il fronte d'occaso. L'ira
mansueta del tramonto
intrecciata con la selva
delle paludi. il ludo nudo
delle fiaccole in coma
qualora il costo della lente
sia il fuoco consorte col tema
della stanza abbandonata. interno
di aprile premere la gemma per
scoppiarne il fiore.
81.
prendila questa incerta danza
questa parvenza tutta
di meringa per la merenda d'infante
in un fondo amore che non sa tradirsi
tra il sì del darsi e l'inimicizia darsena
della luna conquistata. qui è stata
tradotta la cometa dal drappo nero,
qui è stata mangiucchiata la rima che
ci rese amanti e tanti giunchi traggono
pane per la bellezza dell'inchino chimerico
di chissà cosa chiedere! e nel dominio
della libertà ti vedo incline verso le sostanze
scolaresche di baci tutti da regalo.
99.
ho preso una lite col goffo di me
con le stampelle d'adunata
tendenziosa, con l'estro di non
farcela né con la forcella né con
la lapide. sul filo dell'acqua ho
visto mia madre distrarsi felice.
un rattoppo e mi finirà la strada
gerundio inetto quanto un rubacuori
che si creda fortunato. in mano alla
spelonca dell'eclissi mi va di stare
calice di sprechi così come persi
il tempo e la leggenda. stantie del pane
le risacche sorde cattedrali ai crolli.