Marina Pizzi - Segnacoli di mendicità

Da Ellisse


Marina Pizzi - Segnacoli di mendicità - CFR Edizioni, 2014

Leggo con molta simpatia la prefazione che a questo libro ha fatto Gianmario Lucini, recentemente scomparso. Ho sottolineato alcuni passaggi, dei quali due o tre combaciano con cose che ho scritto in passato riguardo al lavoro di Marina, altri mi trovano in disaccordo. Ma a parte questo la prima cosa che mi sento di rimarcare è la aperta disposizione a capire e a condividere, a interpretare e ad accogliere che Lucini aveva nei confronti di tutta la poesia, anche quella che con ogni evidenza è lontanissima dalle sue corde, di chi - annota - "è abituato a leggere (e a scrivere, come il sottoscritto) la poesia in modo diverso, più vicino alla tradizione". Una cosa che va tutta a suo onore. L'approccio di Lucini potrebbe apparire disarmato, di fronte alle asperità che presenta il lavoro (questo e tutti i precedenti) di Marina. Tanto che in più punti sembra invitare il lettore a non voler "capire", a non tentare di afferrare il "senso" delle parole dell'autrice. Tuttavia relativizza, giustamente, il problema del "senso" ed è lettore troppo acuto per arrendersi, individuando alcuni punti essenziali. Vediamoli. Mi pare indubbio, come Lucini nota per prima cosa, che Pizzi segua una sua maniera di versificare tutto sommato tradizionale, quasi un verso libero in cui non è infrequente trovare dei perfetti endecasillabi o assonanze o perlomeno una quantità enorme di parole parossitone che degli endecasillabi sono il fulcro, la cui finalità però non è tanto quella di stabilire un ritmo o una piacevolezza quanto quella di creare un "ordito di suoni, un contrappunto sul quale innestare il materiale linguistico", secondo le parole di Lucini, che aggiunge che se così non fosse quello del poeta "potrebbe essere scambiato per un linguaggio schizofrenico" (e c'è molto di assolutorio, della buona disposizione di Lucini, in questa affermazione). L'obbiettivo quindi sarebbe quello di creare un "ambiente sonoro", una specie di camera acustica in cui il lettore riceve le suggestioni dell'autore, appunto soprattutto sonore, come principale "significato" dei suoi versi. Tuttavia questo ci porta ad una certa passività di chi legge o almeno a quanto Lucini sottolinea più avanti. Del secondo punto che annota Lucini, cioè che la lingua di Pizzi appaia progettata, non sono del tutto convinto, non credo insomma che, per quanto Marina operi una sua evidente selezione delle parole come tutti, ci sia in lei una strategia, un artificio, a parte la scelta frequente, come accennavo prima, di parole piane. Per la verità quando parla di progettazione Lucini si riferisce appunto alla ricerca di musicalità, ma anche delle potenzialità associative, di calembour, di gioco di certi accostamenti anche quando "cozzano" producendo, aggiungo, come un attrito sconcertante. Il fatto è, a mio avviso, che, come ho detto altrove, l'approccio di Pizzi alla lingua, la "sua" lingua, non è solo ludico-strumentale (e di ludico c'è poco davvero), ma è fortemente emotivo, al di là delle apparenze, tanto che - scrivevo - è in questa funzione emotiva che Marina "rinviene (e, certo, anche seleziona, lima, ecc.) le sue parole, i suoi personali nessi metaforici, scardina il rapporto naturale tra parole e cose, mette in crisi la relazione dei segni, recupera quella dei suoni" (un testo esemplare può essere ad es. il 64, vedi più oltre). E certamente - altra cosa che annota Lucini - è importante qui il ruolo dell'inconscio "generatore di simboli" che l'autrice sfrutta per ridurre il ruolo della coscienza quale "censore" che tende a far passare solo il prodotto della "riflessione". Ruolo che non deve essere sottovalutato, certo come fonte, ma che entra in qualche contraddizione con quel tanto di progettazione di cui si diceva prima. Potremmo dire allora, in sintesi, che in Pizzi il controllo non è assoluto, né può esserlo, e che i testi migliori vengono illuminati, anche di senso, dall'equlibrio di questi due elementi principali. E credo che proprio il raggiungimento di questo equilibrio sia la vera faticosa ricerca di senso di Pizzi ("leggiucchio le voragini del senso / l'arbitrio di commettere adulterio / con le frattaglie del non senso", brano 33), del suo tentativo di leggere la sua realtà. Da queste caratteristiche, dall'accostamento insolito di significato, dall'ambiente sonoro generato da questa poesia, secondo Lucini deriva una ristrutturazione del ruolo del lettore "il quale non è più colui che deve capire il messaggio, ma colui che deve creare un senso lasciandosi trasportare dalle suggestioni", ruolo in cui diventa fondamentale l' "ambiente sonoro" e la "musica" che lo stesso Lucini aveva già sottolineato. In altre parole il lettore deve "lasciarsi sedurre dal senso che quelle espressioni provocano in lui", non ha altra possibilità, è anzi "inutile soffermarsi (a nostro avviso) cercando il pensiero dell'autrice che, ne siamo convinti, fa di tutto per non seminare significati certi e definitivi nei suoi lavori". Con questo giudizio abbastanza netto ecco che si torna al concetto di passività del lettore accennato qualche paragrafo fa, Giudizio che non è contestabile in sé, ma che implica almeno un paio di osservazioni. La prima è che la lettura appare insieme passiva (la seduzione) e soggettiva (il senso provocato in lui, magari diverso da quello provocato in altri), cosa che peraltro corrisponde molto a una delle possibili funzioni evocative della poesia. L'altra e conseguente è che il lavoro del poeta, dell'autore, diventa improvvisamente aleatorio, cosa che non nego abbia il suo fascino ma che espone l'autore ad un arbitrio al di là delle sue intenzioni creative, di quel che voleva dire. In altre parole, per dirla con U. Eco, se il lettore ha l'iniziativa interpretativa il testo vuole essere interpretato con un margine sufficiente di univocità, ovvero appunto non arbitrariamente. Per parte mia in passato avevo scritto che "la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita') cosi' come lo vede l'autrice" e che "da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E' una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici". Personalmente sono ancora convinto di questo, del fatto che la seduzione, che comunque c'è, non basti, che lo sforzo riguardi soprattutto il riconoscimento del profondo sistema metaforico della poesia di Marina, riconoscimento in cui certo l'esperienza personale del lettore, la sua "soggettiva" ha un'importanza fondamentale (ma invito a leggere quelle mie note). E' comprensibile in ultima analisi, e in parte fondato, che Lucini da una parte, come si è visto, inviti a non ricercare a tutti i costi il "pensiero" dell'autrice e dall'altra, più avanti, affermi che forse quel "pensiero" non esiste: "non esiste, quindi, un definibile e/o oggettivabile pensiero poetico dell'autrice, anche se, a lettura ultimata, risulta chiaro anche se non esplicitabile, che l'autrice segue un suo pensiero, una sua teoresi". Un pensiero che, seppur marcando uno iato tra pensiero stesso ed espressione, "si può intuire da molte spie, una delle quali potrebbe essere ad esempio la frequenza di determinate parole nei testi". E' questa la giusta e centrata intuizione di Lucini, su cui sono davvero d'accordo, e cioè che, facendo un passo ulteriore, si possa ricostruire ciò che altrove ho chiamato il sistema mefatorico di Pizzi, ovvero il vero senso della sua scrittura. E' questo il lavoro da fare. Qualche altra osservazione, per chiudere. Avevo già segnalato in una delle note precedenti su Marina una sua certa "maniera", qualcosa di più di uno stile consolidato. E cioè la scoperta, anzi la costruzione, di un meccanismo poetico funzionante e collaudato. Anche Lucini nota qualcosa in questo senso quando parla di via percorribile, parla del libro come di "una proposta che regge, è di buona qualità ed è aperta (corsivo mio), alla portata di tutti, passibile di ibridazioni e di innesti, soprattutto con la musica". Le parole di Lucini prefigurano una specie di format accessibile da un lettore che decida di farsi poeta. E in effetti si potrebbe avere l'idea, brutale e del tutto ingiustificata, della sostituibilità all'interno dei testi di Pizzi di elementi lessicali o parti strutturali che li compongono. Un modello formale che però, come tutte le forme, è una scatola vuota che andrebbe riempita con il talento dell'autore. E tuttavia la modalità è potenzialmente inesauribile. In questo senso si pone in contraddizione col concetto stesso di "ricerca", almeno di ricerca di forma. E in questo senso va anche interpretata sia la prolificità di Marina sia la sua pressoché costante caratteristica di numerare i testi in lunghe filze (99 in questo caso, oltre 100 in diverse altre occasioni). Tanto che a volte ci si domanda se Marina non sia (e non sarebbe la sola) l'autrice di un solo Libro suddiviso in tomi arbitrariamente e che i testi stessi, che appaiono finiti, siano davvero "finiti". Eppure, al di là dell'eventuale automanierismo, mi pare che in molti testi, tra cui quelli della mia selezione, il registro di Pizzi, la sua capacità evocativa ed espressiva si sia ulteriormente affinata, forse anche grazie ad un lieve ma percettibile riavvicinamento ad una significatività. Ad esempio dove il dato è più "concreto" la poesia è più "leggibile", intendendo entrambi gli aggettivi in senso lato (si veda a titolo esemplificativo il brano 28). Analogamente, per fare un diverso esempio, l'uso del "tu" assume un'importanza sostanziale, da personaggio. Il tu, se dovessimo disegnarlo o esprimerlo con il linguaggio dei segni, sarebbe un dito puntato. Contro chi? Quello di Marina è un tu bifronte, come un giano, un tu in cui è possibile riconoscere abbastanza agevolmente quello che mimetizza l'io dell'autrice e quello "titolato", dell' "altro", di chi sta (o stava) di fronte. Entrambi colpevoli, in qualche misura, e perciò oggetto dell'invettiva linguistica, del frangersi di ondate verbali, per quanto misurate (a volte in perfetti endecasillabi) e musicali, come aveva visto Lucini. Non resta da dire in definitiva che quella di Marina è, in effetti, una scrittura difficile, intorno alla quale è altresì difficile esaurire gli argomenti. Poichè mi sono occupato della sua scrittura in almeno sei diverse occasioni (il primo post risale al 2006, trovate tutto su Marina Pizzi in IE QUI) rimando volentieri chiunque sia interessato a quelle note, con l'avvertenza che alcune delle cose che ho scritto potrebbero essere rivedibili. Buona lettura.(g.c.)
2.
ho pianto un sacrificio
un silenzio di crisi. perdo
molti capelli perché perdo
molta vita e negli sgoccioli
si ciondola morenti. tu sei
decisamente bello ma non
riesco più ad innamorarmi di
te. segno dei tempi. una tenda
che ondeggia al vento è decisamente
più bella e tragica di qualunque
parola appropriata. la parola
del grande poeta banalizza comunque
almeno un po'. ma non c'è altro mezzo:
il silenzio è spesso puttanesco
può venir equivocato molto di più.
il vuoto è lo straordinario! il male
il bene assoluti. l'arcano. la cantica
dell'angolo senza oltre ragionamento.
4.
me ne andrò a spingere la barca
in acqua, con dignitosa peripezia
voglio illudermi di un ludo
più felice. non voglio più guardare
la luce fioca o la carica del vento
anarchica baldoria. qui nel pasto
di storie andate a male resta la stanza
con le credule vacanze. invece è scempio
il mondo della forca e incanutito il frutto
dell'inguine benevolo. oggi è matura
l'arida facciata. con le rive di gemma
ho chiuso il bello.
12.
in uno stato di sobbalzo ho visto
l'angelo. era il muretto afono d'arsura
era la regìa d'abaco del pianto.
il musico e il colosso stanno alle lacrime
gemelli. in vita descrivimi la notte
questa stoccata d'eremo questo calare
contro la fronte un'edera scortese.
impigliami le mani così che voglia
sprigionarmi dal giogo della mina
che salta in aria per brandelli d'asce.
sfiniscimi nel tuono delle fionde
nelle sorelle che sperdono le gerle.
e parla l'almanacco una lingua vieta
scovata sotto i panici del verbo.
19.
in corpo alla bravura di resistere
la cisterna non varia. attore e cornucopia
non eludono il filo della lama.
tra non molto il ludo della frottola
finirà i giochi. morrai. salita su salita
già si affanna la natura della falla
per spianare il rantolo. la spia
è un tratto magro in comunione
tragica. su, non piangere, le libertà
non possono l'asilo di nessun ritornello.
20.
essere in vita è un criterio sperduto
un alunno senza lavagna né voce
di maestro. in tanta precaria
esistenza si stenda un velo di lutto
un sillabario bianco. in bilico sul cipresso
la casa delle serpi. un dubbio da dentro
la nuca innocente arrovella. tu dove sei
bandito gentiluomo prestato al palmo?
qui nella minestra degli abiti sbilenchi
resta una donna in chiodo di dovere
di non esser madre. la natura sperpera
chi nasce. è scienza o mito
farsi pallottolieri nell'abaco del baratro?
21.
spauracchio di nodi ho letto l'indice
che mi diceva di gareggiare appieno
nonostante! in stalla con gli animali
condannati ho preso a pregare
negli occhi della cavalla. la consolazione
è stata franca ma non la voglia di vivere
con il basto alla nuca e alle caviglie.
la vigliaccata dell'ombra è stata tutta
per lo stornello del sole per le comete
ingenue. nudo corra l'atleta del miracolo
quando la genia della colpa sia sparita
dalle tempie dalle rughe della fronte.
24.
mi piacerebbe chiedermi perché sono morta
col tartufo nel palmo e il diamante nell'altro
con l'amante stretto al petto fino allo spasmo
e la novena del principiante che non sa frenare
lo strazio di restare. qui ti avvengo con le mani
sature di baci eppure piango con la gogna del
migrante. la casa è un arsenale di vendette
all'insaputa di tutti. voglio piangere il resto
dei miei giorni per morire satura, vacua.
nel giorno avviene l'entità del basto
questo pagliaccio che non fa ridere nessuno
con la pelle di ghiaccio e il ghiro sparato
dall'elemosina dell'assassino. il passato
è un crollo di cimitero un addobbo per l'erta.
domandami se gioco con la venia del salasso
quando leggo questi versi in riva al rantolo.
28.
gioca che ti rigioca è finito l'asso
il messaggero alato dello sguardo
quando vederti era un generare
sogni ad occhi aperti da toccare.
oggi il diamante del tuo passaggio
è ricco di pece, il girotondo una mitraglia
contro nemici plurimi al dolore.
con te non vengo a generar le stelle
né gli alambicchi per i profumi mitici
dato che oggi mi chiamo senza casa
né moda con il vanto delle lucciole.
da adesso piango con la faccenda in tana
dove la bestia mi depone. l'allerta
dell'agonia m'è imposta stazza.
30.
appello d'oltre strazio
poter vincere
la rena ad incudine di sguardo.
amami con una vena di disciplina
con una fuga in meno
con un ventaglio di miti.
strappami il petto con un bacio
di rispetto con un inno di pace.
disponi aureole mettimi in giostra
con il sangue che sorride.
sii l'amante comico del pane
l'attento giorno di farmi restare
dentro la gerla della litania.
il corso giaccia pargolo alla gola
altare di ricami seduttori.
38.
non è che una botola il sudario
l'aria malsana dello stento
il bivacco salino del salterio.
dimentica se puoi questo meandro
a scalare senza niente da mangiare.
in custodia credi d'essere tra i salvi
tra lo stupore delle carezze
le tegole partigiane contro il vento.
41.
sul giglio se ne andava a piangere
inconsolabile figliolo di un assassinato
nato per morire. la pianta grassa
volle un po' d'acqua una quarantena
di giubilo prima di fiorire. aveva i giorni
contati e si sentiva bene, il mio amico.
questa la beffa di un micidiale fare.
invano la consegna della panica graziosa
farfalla sopra la tempia. il mare era un'agave
marcita. la spatola non serviva a sbrigare
le faccende. tutto restava in attesa
di cedere. la meraviglia del tarlo
si rosicchiò tutto.
47.
invano sollevo il velo del nunzio
muto senza invito nel crollo che
sono. tu sei il beneficiario della stanza
senza pareti di preghiere, sei libero
sollievo senza morte né speranza.
senza trucco senza voltarmi indietro
sono la vedova del senso. tu laggiù
mi chiami in un fardello di ortiche
che screziano la libertà dell'attimo.
nei banchi di scuola incisi dalla noia
anche il poeta è schiavo. scenda a valle
l'altura della paura questa minaccia
che ciarla con la ruggine e i chiodi
delle girandole cattive. v'è raduno
d'angeli sotto il portone serratissimo.
60.
attrici di cenobio le colonne
con gaiezze di spose. domani
la risacca dell'ombra vincerà
la pietra. il pollice succiato
dal bambino rimedierà catastrofe.
la strofa fischiata dalla rondine
forerà la lapide per le larve
delle farfalle. la velocità della girandola
farà volare la terra con i papaveri
proletari. l'altare del fannullone
sarà la migliore delle
64.
dammi un oltre di stallo
un io che mi abbandoni.
un dono acrobatico che
faccia da trafittura
al fulcro di dover essere
cordame al feretro che s'interra.
giungimi in frotta con il sangue caldo
ultimo amante di ventura!
tura l'apice del redentore
che spezza gli appuntamenti.
sfuma per me le oasi bugiarde
il sopruso del sale sul materno
nodo paterno che rovina il sì.
70.
tutta la stampa racconti l'accaduto
della zolla. mendicità del faro
il rito della notte qualora ci sia forza
di vista. e stemma in vista come a
riciclare chissà che sfarzo nello stento
vero. in mano alla corolla dell'accaduto
si dia canuto il bacio della notte
la simbologia perenne della morte.
in mano alla perizia del cristallo
il lento addio dalle mille facce.
l'età del fato è un ordine maggiore
giocato sul periglio della botola
sulla calura in pianto delle impronte.
dimentica di me le versioni note
dacché la creta è l'unica maestra.
81.
sui cornicioni passeggiano i piccioni
inutili come un grembo buono.
la bomba della poesia è similoro
e non beffeggia la gronda del suicida.
in maniche di camicia l'arbitrato
non fa vincere né perdere.
è un bisticcio di rendite stare appesi
per simulare il lichene cheto.
sulla ultima giacca del condannato
le rondini naturali lo reclamano
re. gli specchietti per le allodole
dirupano il sole. le migrazioni umane
hanno le attese delle briciole.
86.
in un'aria secca invisa alla cometa
nacque lo scempio. in pubertà la nenia
del rantolo sembra una canzone. io stessa
vissi la carcassa del nome. miracoli
cannibali porsi in ascolto dell'angolo.
si resta soli nel cerchio della mente.
un indovino mi presta le corde per
scappare di prigione, ma sono di
seta e si spezzano subito. molti
mal silenti bivaccano dal pulpito
di un qualunque balcone. la forza
del tutore non basta la statua di sale
che si sta formando.
88.
una notte di ospizio di latrati
guardarti il viso che se soffre è poco
se nulla offre la costanza vizza
tradita dalla tattica dell'abaco
saper contare sul comunque occaso.
in vetta alla classifica del sangue
questa minaccia tattica del treno
che fischia senza mai arrivare.
in codice alla nuca la corteccia
dell'ultimo albero divelto
per far posto al tronco della bara.
in barba alla storiella della comica
restano le fasce della mummia
il corpo andato a farsi sbrevettare.
92.
la pietà dell'ozio
presso l'asfalto di fiori spontanei
e la spugnetta tragica sul viso
del morente. tu che ami
i fossili e le rondini
chiamami al sì di regole bonarie
e tegole che possano una casa anfibia
un po' marina un po' montana un po' darsena
molto pudica da restare vergine alla polvere.
in mano allo scantinato che mi sposa
dammi un tic che mi possa consolare
bambina sola. intorno alla voracità del verdetto
ho perso la tipica stazione di far battere
serenamente il cuore. nessun saluto ha etica
di ramo per dar futuro all'albero.
98.
le ho perse le stazioni della foce
e della darsena. nella sabbia ho
murato un seno e un cipresso
atto alla compagnia. sono mutila
nello stanzone pieno di carrozzelle
per i mutili che abbozzano un sorriso
o ben più spesso gli occhi bassi
studiati dalle rondini per sorprenderli.
inutili crisalidi per domani
le farfalle. da sùbito il corallo ben colorato
avrà la rendita della bellezza. qui rimane
una stazione in collera con se stessa
e la chimera in odio all'ultima allegrezza.

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