Marino Magliani & Marco D’Aponte, Sostiene Pereira, Tunué 2014, pp. 174, euro 19,90.
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di Andrea B. Nardi
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Si è ricomposta la coppia Marco D’Aponte & Marino Magliani, premiata ditta già autrice di Quattro giorni per non morire (Transeuropa), ma dove questa è un’ottima graphic-novel di alto profilo, Sostiene Pereira va oltre e raggiunge i crismi dell’opera d’arte. Non abbiamo tema di essere smentiti: la versione grafica del romanzo di Tabucchi è una galleria di dipinti veri e propri, niente a che fare con le graphic cui potreste essere abituati, nemmeno quelle di miglior fattura. Chi conosce il lavoro di D’Aponte non si stupisce, in verità: pittore professionista, professore di disegno, il maestro torinese è un artista autentico, non un graffitaro o un fumettista tout-court, quindi nel campo della grafica d’autore lascia un segno personalissimo improntato a una propria poetica ben precisa, intellettuale ed emozionale.
Il tratto di D’Aponte si articola su una duplica chiave interpretativa. Da un lato abbiamo i personaggi, la cui umanità viene raccontata attraverso un profondo scandaglio dell’animo: quasi lombrosianamente egli fa scaturire sui loro volti, dai loro corpi, le pieghe non solo del proprio vissuto – di miserie e nobiltà, di sogni e terrori, di violenze, incubi, dolcezze e speranze – ma anche del loro destino, del loro ruolo ormai incancrenito nel mondo, la loro parte recitata in questa farsa della vita. Ne risultano, così, figure meravigliose, perfettamente verosimili pur nei lineamenti spesso quasi caricaturizzati – e quante volte vediamo attorno a noi, perfino dal nostro specchio, la caricatura che il tempo regala alle facce degli uomini –, ma ogni loro movimento, ogni gesto, ogni loro passo lungo l’esistenza della storia è da D’Aponte disegnato ricercando all’ossessione la miglior naturalezza possibile, non lasciandoli mai neppure per un momento rigidi in una posa fumettistica artefatta. Sono persone più vive della realtà, benché – o, forse, proprio per questo – affrontate con l’indagine psicologica dell’umorismo e della levità.
Dall’altro lato abbiano le scenografie, gli sfondi, gli ambienti. Qui D’Aponte dà fondo all’ulteriore sua importante caratteristica: la cura estrema, la ricerca infinita (e lo sanno bene sceneggiatori ed editori per i tempi geologici delle sue tavole…), la paziente indagine storica e geografica cui ogni vignetta è sottoposta per calarla nelle corretta dimensione spazio-temporale. Ogni abito, ogni strada, ogni interno di abitazione, ogni oggetto, ogni mobile è esattamente quello che deve essere in quel momento.
Questo cocktail di realismo e fantasia è proprio la bravura di D’Aponte, la sua arte. Il libro è commovente; i quadri si sommano via via sempre più belli, e dispiace procedere sui nuovi con avidità, così si torna su quelli già letti per coglierne ancora mille dettagli incantevoli – sfumature, luci, sovrapposizione di tinte, amalgama di colore e bianco & nero, calore delicato e limpidezza gelida, torsioni perfette delle figure, scelte audaci di scomposizione dei piani, evidenziazioni di personaggi, occhi di bue surrealistici per dare verità (secondo la lezione dei migliori cineasti: nell’arte occorre fingere per dare l’impressione del vero: l’iperrealismo non paga), poi si continua a leggere scivolando completamente all’interno della storia. Non siamo noi a fruire del libro, ma è il libro a entrare in noi.
E qui entra in gioco la sceneggiatura di Magliani. Nelle opere d’arte riuscite, è l’opera a penetrare il pubblico, non a farsi fruire dallo spettatore bensì, al contrario, a inglobarlo nel proprio cosmo, coinvolgendolo nella propria bellezza e compenetrandone l’animo. Se lo spettatore (o lettore) l’ammira e basta, il risultato non è soddisfacente. Invece qui Magliani ci fa camminare perfettamente a nostro agio per le vie di Lisbona degli anni Trenta, a fianco di Pereira, condividendone fatiche e fiatoni, ricordi e sentimenti, tanto da sentirci strappare il cuore quando se ne va dall’ultima pagina lasciandoci soli per una città che non esiste forse più. Lo scrittore ligure crea una messa in scena del romanzo di Tabucchi capace non solo di rendere appieno la magia della narrativa originale (già merito di per sé notevole) ma ottiene di personalizzarla senza stravolgerla. Regista sensibile, traduce in visione i momenti più significativi in un arduo lavoro che deve giocoforza sacrificare tanto della prosa, ma al contempo porta alla luce un film delicatissimo e raffinato, opera altra e ulteriore, capolavoro da capolavoro. Quando il “fumetto” fa concorrenza alla narrativa.
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