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Mario Benedetti - Tersa morte

Da Mauro54

  Mario Benedetti - Tersa morte  MARIO BENEDETTITERSA MORTE – MONDADORI 2013
Nella poesia di Mario Benedetti la parola appare indifesa, come ad ammettere una sconfitta, una resa nei confronti di ciò che è accaduto e sta accedendo nell’atto stesso della scrittura. Qualcosa si è perso, qualcosa si perde continuamente. I versi si fermano lì, avvengono al culmine di una tensione estrema e dicono che di più non possono, che sono così, ai bordi dell’inesprimibile. E l’inesprimibile è proprio la vita, la stessa enigmatica identità di chi scrive, di chi guarda a sé e a quelle parole come a una perdita, a un addio. Ciò che rimane è la voce abbandonata di un’assenza, tutta la povertà di una fine che va compiendosi nel dire.
E’ questa la ferita mortale dei versi di Benedetti, quella solitudine fra solitudini, quell’estraneità che parla in tutti, nel mondo, nelle cose, e fa male. Quell’estraneità che è nel nostro sosia, colui che guarda, quando “la vita ha deciso”.
La nudità dell’esistenza tocca la pagina, il pudore dei versi, quei frammenti di ciò che è stato. Così restano, carichi del loro silenzio e del loro dolore, gli affetti familiari, le figure del padre, della madre e del fratello, nella consapevolezza che “le parole non sono per chi non c’è più”, che la scomparsa ora è qui, è chiara, è per sempre, anzi c’era già, solo che era nascosta nella semplicità dei gesti più comuni, degli sguardi, delle voci, delle cose: “E ogni vita / era questo: interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato”.
Ecco dunque emergere un’impossibilità, un’appartenenza lacerata e lacerante, qualcosa che reca in sé il segno della fine, quell’incompiutezza o inadeguatezza esistenziale che emerge dalla poesia di Benedetti: “Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità / commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia. / Le parole hanno fatto il loro corso”.
L’umana gloria con le sue fatiche e “l’umiltà / delle cose minute”, con i suoi affetti e le sue vicende marginali, è destinata alla perdita, allo smarrimento, ad una distanza che Benedetti sa nel suo dire inerme, eppure così toccante. Si veda l’attenzione ai particolari, ai dettagli che appaiono improvvisi sulla pagina nella loro nuda verità, come ultimi fotogrammi prima della scomparsa nella lontananza che li aspetta.
La coscienza della morte, del lutto che è in noi e ci accompagna, diviene un assedio silenzioso ( “Sono questo, questa mortalità / che mi assedia / che si concentra negli occhi, nelle mani.”) che annulla il reale e il suo senso e talvolta persino la morte stessa (“evapora il morire”), mentre rimane lo stupore di essere ancora qui, nonostante tutto (“Si vive ancora, sì, si vive ancora”), fra l’esistenza e la parola, una parola che manca: “Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta”.
Mauro Germani

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