Mario Fresa, UNO STUPORE QUIETO, Stampa 2009, 2012
È avvertibile uno scarto di natura censoria in questo libro, dovuto al tempo troppo breve intercorrente tra sogno e ricordo del sogno nel dormiveglia.
Ad esempio: chi era quell’altro?
Quello vicino al serpente azzurro?
Un tizio che ha inventato, forse; oppure M.;
oppure, temo questo, potrebbe essere,
ma che ne so, il fintoamico G., l’osceno mostro grigio di cui
hai parlato ieri, solo per farlo addormentare?
Potrebbe aver sognato, poverino, lo sguardo
cattivo di sua moglie? Oppure, peggio, ma proprio
peggio, il mefitico barbiere? Oppure, peggio peggio,
quel deforme venditore di scarpe?
Non ci voglio pensare, non ci voglio…
(…)
Strano, ripeti, strano…
Non esco più da queste immagini che non capisco.
p. 20
Un altro elemento connesso a questo estraneamento precisissimo, causa di una vertigine di lettura, è l’ironia utilizzata da Mario Fresa nel parlato, per esempio nella descrizione dei personaggi:
Ha fame ‘sto giovanotto, se necessario: ma guarda
qui, però, che forme; e che bei ricci; e che.
Mi dico così, guardandomi allo specchio.
(ritratto di ammiraglio)
p. 67
Personaggi, più che tipi, abitano gli abbozzi non esplicitamente dichiarati di sceneggiatura, qui chiamati “romanzi, luogo in cui gli ingranaggi di una narrazione più libera possono mescolare il reale con il possibile, teatralità della vita e teatralità dell’immaginazione.
Anche nella seconda parte del libro, “Titania”, s’intuisce una voce che evoca. Si tratta proprio di un evocare, credo:
Nell’angolo accecante di questa dura luce di titanio,
perfino i nostri nomi sono finiti, adesso, nella rete
di un biancume formicolante, nel fragile
attrito di un ricordo.
p. 42
mostrando quindi una presenza, qualcosa che regge i fili del mondo e lo abita in sottofondo, in grado di bruciare “meraviglia” nella vicinanza di “uno strano stupore quieto”.
Questo corpo disossato, quasi irreale,
che un tempo chiamavamo meraviglia
e perfezione, adesso divenuto
come un osceno guscio
abbandonato, in un istante, con una fredda
crudeltà, con uno strano
stupore quieto.
p. 31
Potrebbe essere, dunque, la meraviglia la vera protagonista di questi strani racconti, meraviglia sottratta o arma necessaria per dire di qualcosa che altrimenti non si può dire, la sostanza del sogno in primo luogo, e poi il vuoto che foraggia un parlare, un agire innocentemente o coscientemente vacuo.
Così mi scuoti e mi risvegli, vedi, proprio adesso che piangevo e
resistevo al minaccioso assillo – fatto così, ricordo: zanne ricurve,
e poi due ali portentose; e minuscole, pericolose frecce -
che già si rovesciava, piano, sopra il dorso tormentato dalla luce.
p. 29
Dunque, tornati a casa, inciampare vistosamente nel tappeto.
Afferrare, allora, il ricevitore, però soltanto quando il suono
cessa di colpo.
…Lei, farfugliante… Grazie, mi ha sussurrato, grazie…
In fondo, non è mica una cattiva idea:
vattene a letto. Se ne riparlerà…
p. 41
Ma il libro di Fresa gioca la sua scommessa nell’estrema ratio di una parola in grado di creare mondi a sé in cui i protagonisti abitano una specie di squallore, invischiati in fatti minimi, in un chiacchiericcio che corteggia il vuoto dell’essere abbandonato alla sua ignoranza ontologica o alla sua cosciente autodistruzione: “così queste parole saranno cancellate, dimenticate presto; / o finiranno in miele appiccicoso / o in un terribile segreto”, p. 73.
Sebastiano Aglieco
Rotterdam, agosto 2013