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MARIO FRESA – UNO STUPORE QUIETO (prefazione di Maurizio Cucchi) - STAMPA 2012
La lettura di Uno stupore quieto di Mario Fresa ci introduce in tempi e luoghi frammentati, in lacerti quotidiani scossi da voci interrotte, da improvvisi trasalimenti e paradossi. Con versi lunghi o con brani di prosa poetica vengono descritte situazioni che paiono sospese o inconcluse e che la parola rende sfuggenti e concrete insieme.
L’approccio al reale costituisce l’essenza e lo sguardo poetico di questa raccolta, la sua ragione e la sua domanda. La poesia di Fresa avvicina la realtà di storie segrete, ne sfiora i contorni, ne capta alcune parole ed alcune immagini, come i resti di qualcosa che si perde nell’attimo stesso in cui avviene e non può essere descritto nella sua totalità: si veda, al riguardo, l’uso del tempo presente che ricorre nei testi. E’ una narrazione poetica che - pur nell’andamento antilirico della scrittura, che utilizza un linguaggio medio e a tratti gergale - ci dice di una sfasatura, di una sorpresa, di una malattia, colte nello stupore del loro quieto affiorare. Ma non c’è nulla di rassicurante, come invece potrebbe far supporre il titolo. Si tratta, a ben guardare, di una quiete che inquieta, che la poesia svela, riconoscendone, anche con ironia, l’assurdità nascosta o la follia.
C’è qualcosa di kafkiano in tutto questo, un’operazione linguistica che fa della parola lo specchio rivelatore di un abisso altrimenti nascosto: “Questo corpo disossato, quasi irreale,/che un tempo chiamavamo meraviglia/e perfezione, adesso divenuto/come un guscio/abbandonato, in un istante, con una fredda/crudeltà, con uno strano/stupore quieto”.
L’incomprensibilità del reale e l’ineluttabilità della morte segnano inevitabilmente una distanza che può essere drammatica o paradossale, perfino grottesca nelle sue pieghe. Ciò è reso proprio da uno stupore che nella sua impensata tranquillità denuncia un abbandono, quell’alterità incombente che c’è, ma non sembra vera.
Ecco un altro punto interessante: l’opposizione tra vero e falso non è mai netta in questi versi, perché non si sa dove si trovi il loro confine, il bordo vertiginoso tra ciò che la parola dice e ciò che precede la parola stessa o la occulta, quale sia la verità (se c’è): “Lì sullo specchio, ci sono lisci corpi/barcollanti, buoni o cattivi?/Eppure non si è malati ma.”. La scrittura si ferma, tace, e il non detto incombe nella sua assenza.
Che cosa avviene o è avvenuto? – ci si chiede durante la lettura, e la risposta a questa domanda è paradossalmente la domanda stessa: avviene o è avvenuta una realtà che si rivela come domanda che non può avere alcuna risposta, perché contiene altre domande ed altri misteri. La realtà è dunque abissale, formata da immagini sparse, simili a macchie che appaiono improvvisamente e si dilatano, fino a smarrirsi, a perdere consistenza e divenire quasi nulla: “Nell’angolo accecante di questa dura luce di titanio,/perfino i nostri nomi sono finiti, adesso, nella rete/di un biancume formicolante, nel fragile/attrito di un ricordo”.
Una malattia sconosciuta contagia la parola, lo sguardo, i corpi, ma lievemente, con apparente normalità. Gli atti umani a volte non si comprendono, sfuggono la loro realtà e restano sulla carta come a metà, incompiuti e crudeli, persino lontani e ridicoli. Che cosa si può davvero sapere, conoscere?
Chi annota, chi registra, chi osserva, non annota, non registra e non osserva. Scrive e guarda con stupore ciò che per un momento gli si apre davanti.
Come niente la vita accade in questi testi con la sua vertigine, come niente voci si alternano a voci, come niente c’è qualcosa, un delitto, metamorfosi, identità smarrite, sicari, sintomi inquietanti, amori precari, degenze senza scampo. Da ciò deriva una sottile e distanziata ironia che scuote i versi e dà – come osserva Maurizio Cucchi nella prefazione – “movimenti anche sorprendenti alla pagina”.
Mario Fresa costruisce con molta abilità un’architettura polifonica e poetica in cui i vari personaggi si uniscono nella loro solitudine, sorpresi da uno sguardo che li trattiene in momenti al tempo stesso assoluti e precari. La sua scrittura, originale e multiforme, ce li consegna come fantasmi reali che non vagano, non cercano, ma sono qui, davanti a noi, nel loro enigma.
Mauro Germani
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