La mattina io e M. andiamo a vedere la mostra su Giacomelli. Premetto che ne avevo vista una molto grande al FORMA di Milano, con tantissime fotografie e alcune delle serie complete per le quali è famoso, come ad esempio Io non ho mani che mi accarezzino il volto e A Silvia. A quel tempo la fotografia mi piaceva, ma ero soltanto agli inizi del mio percorso di avvicinamento non solo alla tecnica, ma anche all’approccio concettuale dell’arte fotografica. Per me fino a quel momento, fotografare significava sostanzialmente descrivere la realtà ed ero ancora ben lontana dall’idea che la fotografia è – al pari delle altre espressioni artistiche – un modo di ricostruire la realtà filtrata attraverso i propri occhi e il proprio cervello.
Quella mostra su Giacomelli, dunque, fors’anche per un allestimento che non mi aveva del tutto aiutato, non aveva lasciato su di me un grande segno. A distanza di anni, tornare a vedere le foto di questo grande maestro della fotografia del Novecento è stato molto emozionante. La mostra al Museo di Roma in Trastevere è una mostra piccola, perché le fotografie provengono dal solo archivio dell’amico Luigi Crocenzi, ma danno un’idea molto precisa della poetica fotografica di Mario Giacomelli che da una fotografia molto descrittiva si è spostato progressivamente verso una fotografia in qualche modo sempre più astratta e concettuale, in cui i segni diventano di per se stessi messaggi.
Certo manca in questa mostra la completezza delle serie che in alcuni casi è indispensabile per comprendere e apprezzare la singola foto (come ad esempio nel caso di A Silvia ispirata alla famosa poesia di Leopardi), però l’archivio di Crocenzi ci permette una specie di scoperta sintetica di Giacomelli che non potrà che produrre ulteriori curiosità.
Innanzitutto, i miei complimenti per l’allestimento (pur abbastanza consolidato in questa zona del Palazzo delle esposizioni). La sensazione è proprio quella di una lunga passeggiata nella città di Parigi tenuti per mano da Doisneau attraverso le sue foto e le sue parole.
Nella nostra mente la produzione di questo fotografo è legata a 3-4 fotografie che hanno avuto un successo straordinario, finendo in poster, cartoline, pubblicità e altro (nonché nella locandina della mostra, per cui forse si sarebbe potuto osare di più). In particolare, nessuno credo ignori Le baiser de l’Hotel de Ville (che è appunto la foto della locandina e di cui vi invito a scoprire i retroscena nell’intervista alla figlia del fotografo nel video allegato, anche se si riferisce a un’altra mostra). Questa conoscenza del tutto superficiale di Doisneau e la sensazione di una fotografia molto estetica e stereotipata erano il motivo principale per cui stavo quasi per perdermi questa mostra.
Per fortuna diversi amici me ne avevano parlato bene e così – complice anche la presenza di M. a Roma – mi sono convinta ad andarci. E per fortuna! La mostra rivela un fotografo di straordinaria ironia e umanità che è certamente sintetizzato da questa sua frase: “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere.”
Insomma, Doisneau ci offre l’immagine della Parigi e dei parigini come li vorrebbe, in cui prevalgono la leggerezza, l’ironia, il contrasto tra un bigottismo piccolo-borghese di superficie e una grande libertà di costumi.
Bellissimi e sorprendenti anche i grandi pannelli con le composizioni di foto da lui stesso realizzate per le esposizioni, nel tentativo di dare alla fotografia una narratività quasi cinematografica e una forte componente scenografica che sono in generale molto presenti nell’opera di Doisneau. Dalle sue foto traspira un amore smisurato e quasi commovente per la città di Parigi. Come ci racconta sua figlia, Francina Déroudille, nel video allegato a questo post, in realtà Doisneau proveniva dalla banlieu parigina e forse proprio per questo ha sempre guardato Parigi con gli occhi di un bambino davanti a una vetrina di Natale. Mario Giacomelli e Robert Doisneau mi hanno ricordato la magia della fotografia, in cui il confine tra vero e falso, tra finzione e realtà è molto sottile e molto difficile da individuare, perché la verità non deriva da una rappresentazione necessariamente naturalistica o spontanea, ma dall’autenticità dei sentimenti che il fotografo trasmette alla pellicola, dalla sincerità della visione della realtà che egli traduce in maniera del tutto personale e inimitabile attraverso il proprio obiettivo.
Che voglia di tornare a fotografare!
Voto: 4/5