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Mario Lattes: “Il borghese di ventura” (1975)

Creato il 15 aprile 2012 da Viadellebelledonne

Mario Lattes: “Il borghese di ventura” (1975)Lo scrittore torinese, nato nel 1923 e scomparso nel 2001, è nel novero di quegli autori che hanno cercato di rappresentare attraverso l’arte le contraddizioni e le umiliazioni della vita e l’anelito dell’uomo all’affrancamento e alla libertà.

Dopo la prima raccolta di racconti, “Le notti nere”, del 1958, l’anno successivo esordì nel romanzo con “La stanza dei giochi”, al quale fecero seguito più tardi i due romanzi maggiori: “Il borghese di ventura”, del 1975 e “L’incendio del Regio”, del 1976, entrambi pubblicati da Einaudi. Alcuni suoi articoli apparvero su “Il mondo” di Mario Pannunzio, nel 1957.

Lattes ha al suo attivo una intensa e importante attività nel campo della pittura e della scultura.

Non va dimenticato, inoltre, il suo impegno di editore pressola S.Lattes& C. Editori, specializzata nella pubblicazione di testi scolastici e scientifici.

Il borghese di ventura” è un romanzo non suddiviso in capitoli e narrato in prima persona. Siamo nel periodo della Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre del ’43, e i genitori del protagonista – lo stesso autore sui vent’anni -, essendo ebrei, cercano un rifugio per il figlio onde sfuggire alle leggi razziali. Dove condurlo? In Svizzera? A Roma? In Vaticano? Decidono per Roma, dove hanno degli amici.

Si è subito colpiti dalla spontaneità discorsiva della scrittura, accidentata come avviene quando si conversa o si pensa per concatenazioni di frasi che sorgono senza preavviso, dense e fresche come per una nascita: “Noi andiamo dal Commendatore e questa è la piazza, quella è la libreria. Si vede subito, la piazza è piccola. Nella vetrina la piazza si riflette leggermente scoscesa: qui c’è il Commendatore e il Commendatore mi fa entrare in Vaticano.”; “Questi, quando lo cerchiamo, la finestrina è sparita nel buio.”

Vengono in mente altri autori che hanno trovato nella scrittura lo stimolo e la risorsa della loro arte, a partire da Papini, Fenoglio, Tozzi, Rizzuto, Cavani, D’Arzo, Dell’Era, i primi che vengono in mente.

Non è facile per un ebreo trovare ospitalità. I vecchi amici, come il Commendatore, si ritraggono, hanno paura. Anche il Professore, che pure si vede costretto ad accogliere il ragazzo, lo fa a malincuore e pone regole precise affinché se ne stia rintanato e non si faccia scoprire dai vicini: “Devo stare in casa. Se viene qualcuno, chiudermi in camera.” Da ciò, la constatazione amara: “Era diversa, la gente, prima, quando non c’era pericolo. Si sbracciavano, mi vezzeggiavano, ero piccolo.”

La storia è una storia di esilio: lasciata la villa del Professore, requisita dai soldati, il giovane si ritrova nel paesino di Castelnuovo, vi passeggia, osserva la gente al modo che ha Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato a Eboli”, del 1945. Sebbene si tratti di due scritture diverse, lo sguardo sembra tuttavia il medesimo: non solo del letterato, ma anche del pittore, uso a scoprire e mettere in luce i dettagli: “Sono a letto, nel letto di Luigino che è via, a studiare dai preti. Non accendo. Sto disteso a guardare il cielo dal finestrino. Non se ne vede mica granché, appena quanto basta. Aspetto che abbui. Qualche modificazione finalmente c’è stata, nella luce. Adesso il cielo appare più luminoso lungo il margine del balcone soprastante e quello del muro di fronte, segno che questi si vanno oscurando.”

La scrittura di Lattes è quasi febbrile, curiosa, indagatrice: sorvola sull’ovvietà per sostare sul particolare: “Passo sotto gli archivolti col fiato grosso e macchie davanti agli occhi per la fatica di salire. Perché il paese è su un cucuzzolo, bisogna ricordarlo. Sui muri ci sono macchie molli e brunastre. Corrispondono all’interno, a focolari, a cessi. Se incontro qualcuno subito mi ricompongo. Smetto di zoppicare e cammino discosto dal muro, normalmente. Spesso trovo una vecchia seduta sulla sua porta. Ho cominciato prima a salutarla, poi anche a parlarle.” Oppure: “Vado a spasso per la campagna. Bisognerebbe descrivere l’inclinazione della pioggia, il suo effetto sui colori: i più lontani e quelli vicini. Come penetri, la pioggia, nel terreno, nei vari terreni: se verticalmente o orizzontalmente e quanto l’una e quanto l’altra cosa”. La descrizione, che troveremo più avanti, della goccia che cade sul telo impermeabile con cui il protagonista si ricopre la notte dentro una cava, ribadisce, se ce ne fosse ancora bisogno, una tale specificità, che fu anche di un altro scrittore, pure lui bravo nel dipingere: Lorenzo Viani.

L’autore si serve spesso dei flashback per tornare ad altri periodi della sua vita, che possano accompagnare questi giorni di solitudine. Sono ricordi che lo conducono in seno alla famiglia, alle gite fatte coi genitori, ai racconti del padre. Però: “Mi domando se è bene avere o no ricordi, in queste circostanze. C’è da chiedersi se sia bene averne in ogni caso, del resto.” Leggeremo più avanti: “Forse troverete che parlo troppo della mia famiglia. Ne sarete irritati e avete ragione, sarei io il primo. Con gli anni, poi, vi piaccia o no, me n’è venuta una vera manía.” Lo stile, asciutto, non è mai disperato, e neppure malinconico. Rudemente, con un “Basta” o con un “Lasciamo perdere”, o un: “Meglio così”, e altro di simile, spesso vengono tagliate di netto rimembranze che potrebbero acuire i momenti di tristezza e di sofferenza: “Basta, meglio non andare troppo in là, che malinconia.”

Si tratta di una scrittura forte, rocciosa.

Immagini e sensazioni compaiono come lampi, vi è sempre un addensamento anche nella solitudine, suscitato o da immagini o da pensieri. Soprattutto non si perdono mai di vista spessore e fisicità della condizione in cui è costretto a vivere l’esiliato precario (“quando e se tornerò a casa mia”), il “perseguitato”, “il profugo”, mescolato a gente sconosciuta, attaccato alla vita, di cui avverte vigore, furia e smarrimento. La guerra è presente con la sua esasperante lentezza: “La linea del fronte è ferma da un mare all’altro, Garigliano – Sangro. Ha un bel dire Edoardo, non è d’inverno che si fanno le offensive, con questo tempo e le valli, da quelle parti laggiù, che sembrano laghi. Qui se ne riparla a primavera.” Bisognerebbe lasciare il paesino di Castelnuovo e superare le linee tedesche per trovare un po’ di sicurezza, ma è inverno, tutto è reso più difficile: “chi vuole proprio mettercisi, in questa avventura? Si fa per parlare, per passare il tempo, credere che si fa qualcosa.”

La natura viene osservata come riflesso del proprio subcosciente, come frutto di un incubo o di un sogno interminabili. “Il russare delle campagne adesso sono tuoni e tonfi. Fanno sogni cattivi, di rovina.”; “C’è un buio mai visto, qui, la tenebra, una cosa che respira da sé, che ha un essere.” È una qualità speciale di questo narratore, il cui sguardo riesce a trarre dalla natura una fisionomia nascosta, movimenti e suoni quasi antropomorfici.

Nel paesino collinare dove il protagonista si è ritirato, insieme con Ives e Bianca – che si mostreranno sempre più avidi del suo denaro -, ci sono sfollati di molte razze e religioni, soldati inglesi fuggiti dai campi di prigionia, c’è anche un ebreo tedesco tanto abile da farsi amici i due soldati tedeschi – gli unici in paese – addetti alla sorveglianza di un camion. Vi si trova pure un turco che, terrorizzato, passa le sue giornate nascosto nell’erba alta. In varie occasioni i due tedeschi si recano a mangiare “dalla Cassandra”, la pensione dove il protagonista e altri sono alloggiati. Conversano tra loro seduti alla stessa tavola in una sorprendente promiscuità. Sembra che in quei momenti il paese sia un’isola dimenticata dagli odi della guerra: “Il podestà li aiuta ma in modo da non entrarci. Dà il grano ai contadini che tengono i prigionieri.”

Non va dimenticato che il romanzo nasce dagli appunti che il protagonista ha presi in quei giorni – vi sono a riguardo vari accenni (“Io continuo a scrivere, o quello che è insomma.”) -, così che non è difficile immaginare che l’autore abbia voluto preservarne la freschezza e la spontaneità attraverso una scrittura che ne richiami l’origine. Una tale rimarchevole impronta, infatti, non solo è visibile (“Il discorso, non si può negarlo, sembrava di assistere a una seduta spiritica”; “L’ho studiata a lungo, la scriminatura, ma ci vuole i capelli adatti.”; “qui rimangono le rovine, la tifoide, le scatolette e le coperte di sfroso, che la gente va anche in galera se li scopre la Polizia Militare.”), ma si presenta come una scelta talmente indovinata da determinare molta parte della originalità dell’opera.

La condizione di ebreo è vissuta senza particolari drammi, salvo la precarietà dell’esilio (“Quello che è diventato difficile è dormire.”) e la lontananza da casa. La guerra è considerata non tanto dal punto di vista dell’ebreo, bensì da quello più ampio e generale di una follia che sconvolge e rimescola le regole del vivere.

Quando, giunta l’estate, compaiono lungo la strada che conduce al paese le truppe inglesi, il comandante lo guarda con sospetto. Non avviene, ossia, il gioioso incontro immaginato dal protagonista tra i liberatori e i paesani. La guerra sembra aver intorpidito le coscienze: “Oggi o domani, dico, arriveranno anche qui, gli alleati. Oramai chi se ne importa, in fondo, ma è per la forma. Si tratta di essere liberati ufficialmente, voglio dire, anche se il paese è piccolo.”

Passato lo stordimento, con la liberazione la vita ritorna ad animarsi. Il protagonista riceve l’incarico di fare da interprete; può quindi sperare con il guadagno di sanare il debito di tremila lire che ha con Cassandra, la locandiera.

Più si avanza nella lettura e più ne risulta un affresco del piccolo mondo rappresentato dal paese di Castelnuovo attraversato dalla guerra. Sono coloriture minute e a macchie, da acquerello anche, la cui forza proviene da una frenesia generata dall’ansia di ritornare ad una vita normale, non disgiunta da una certa rassegnazione (“Trascorrerò, non resta altro.”) ad attendere gli eventi: “Nella guerra mi sono fatto un buco e ci sto dentro piegato in due con la testa contro le ginocchia.”

Il caos provocato dalla nuova situazione militare conseguente all’arrivo degli alleati è reso, a volte, con uno stile tumultuoso da avanguardia: “Jane dice che badi a correre. WHOOSH!, fanno le gomme, PHEEP! PHEEP! Preme sul clacson il negro, ma la Polizia Militare li ferma perché hanno i fari spenti.”

Il non far niente (”Nelle ore libere non si sa cosa fare.”), il non avere più grandi ansie o preoccupazioni, il trovarsi a passeggiare avanti e indietro insieme ad altra gente, porta il protagonista ad oziare con la mente in fantasticherie allucinatorie del tipo: “Forse mi deciderò ad entrare in un orecchio, il rischio è enorme, sono tanti e invitanti nonostante il pericolo, scenderò nelle budella macinato da succhi villi mucose, sfocerò in alvei e giù per terra, in due o tre scrolloni.”; “Io sto zitto ma mi domando perché mia madre abbia dato nomi falsi. Certo perché è morta, e adesso può avere tutti i nomi che vuole.”; “Una sera passa un giovanotto […] Mi somiglia in modo davvero impressionante; anzi, non c’è dubbio, quella è la mia faccia.”

Si possono tentare di individuare, quindi, nel romanzo due momenti specifici: quello del profugo preoccupato, prima della liberazione, del suo destino, e quello del profugo che, giunti gli Alleati, non teme più per la sua vita ed ha nel fantasticare il risultato, immediato e disinibito, della sua liberazione. Si presta a questo gioco di movimento allucinatorio anche la lettura di un fumetto in cui i personaggi, Jane in particolare, vengono riguardati dalla mente come persone vere.

Tutta questa singolare esperienza – si domanda il protagonista – ha un qualche valore?: “Insomma, io, mi sono affacciato o no, alla vita? Ci ho pure l’età, vent’anni. […] Oppure è ammesso che si attenda la fine di questa guerra, per poter dire che ci si affaccia sul serio? E questi anni qui, allora, come li sistemi?” Ed anche: “Mica che io abbia nessuna idea, sul dopo. Non riesco a farmela, anzi non ci penso nemmeno.” La guerra, ossia, se è una esperienza, lo è nello smarrimento e nel dolore.

Ancora al seguito degli alleati inglesi, il protagonista si ritrova, dopo Rieti, a Rimini, sempre con l’incarico di interprete e segretario del colonnello Ferison. Si deve ricostruire in qualche modo la città, colma di macerie: “si passa per gli slarghi aperti dalle bombe, tra resti corrosi e inceneriti di edifici che erano villette e pensioni. Per terra l’erba è rasa nera dal fuoco. Nella cenere ha messo radici la gramigna e si arrampica fra gli sbrendoli.” I trasferimenti continuano, sempre più a Nord: Piacenza, il fiume Po, cui dedica belle pagine, Brescia, e così via.

La narrazione imprime e accompagna l’idea del subbuglio e della frenesia del dopo liberazione. Lattes dà al ritmo l’incarico di rendere adeguatamente quei momenti caotici: “Oggi c’è una mattinata che il cielo sta vicino e il palazzo e i denti di rovina ci tagliano dentro duri e leggeri, e c’è il vento. Non è a petrolio, poi, la lampada del mio ufficio. È ad acetilene.” Si passa da una situazione all’altra rapidamente: è sufficiente un “ma non stiamo a spiegare”, oppure un “ma questo lasciamo stare”, per entrare all’interno di una sequenza di immagini effervescenti: “Sembra impossibile che qui dentro ci stia tutto e tutti, lavorare, dormire, fare baldoria. Invece è così, si può vivere senza uscirne mai, ci sono scale anditi corridoi pianerottoli ringhiere finestre.”

La storia ci offre un punto di osservazione non comune ai romanzi dedicati all’ultima guerra. Un ebreo profugo a causa delle leggi razziali percorre l’Italia insieme con le truppe alleate, in qualità di aggregato al servizio di un colonnello: è in grado, ossia, di darci un’idea della macchina bellica in movimento e delle incombenze da sbrigare dopo la liberazione: “La guerra è finita. Il governo alleato ha poco lavoro, rimpatrio dei profughi e degli sfollati, disarmo dei partigiani, rifornimento di derrate alimentari.”; “Qui il tempo ha due suoni diversi e corrispondenti. Uno è per il giorno, il crepitío impaziente del sole e delle macerie; e uno per la notte: carriaggi che sfilano per raggiungere il campo di prigionia. La notte li ascolto: soldati carri cavalli cannoni che attraversano la città dal tramonto all’alba.”

Se la guerra cambia la vita di un uomo, figuriamoci quella di un ragazzo. Una volta che è finita, si deve ricostruire, non solo per lui bensì per tutti, la normalità. Non è facile, se si pensi che il giovane protagonista si era abituato nei momenti di difficoltà a rifugiarsi nei ricordi. Ora si deve guardare soltanto in avanti (“Avanti verso dove?”), invece, non ci si può arrestare o addirittura voltarsi indietro. Occorre darsi uno scopo: “Il parafango è infangato. È il suo scopo. Tutti ne hanno uno. Ma non io, non io, questo è il punto, e adesso è venuto il momento che bisogna avercelo, dal momento che la guerra è finita e almeno la guerra è una cosa che non si fa fatica a capire, che decide e risolve tutto.” La vita, dunque, è più complessa, più ostica della guerra, ed è per questo che, il giorno in cui viene firmato l’armistizio, e si festeggia, il protagonista racconta: “la tristezza adesso è grossa e dura, senza lacrime”. La fine della guerra, infatti, non rappresenta altro che un nuovo e difficile inizio: ci sono molte domande a cui rispondere e molte riflessioni da fare: “La festa dell’armistizio, è stata. Adesso bisognerebbe cercare prima dopo e perché.”



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