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Mario Monicelli Day: Un Borghese Piccolo Piccolo (1977)
Creato il 30 novembre 2015 da Frank_romantico @Combinazione_CDue celebration day in una settimana. Ebbene sì, perché noi blogger siamo sempre pronti a celebrare e a festeggiare grandi registi, grandi attori o determinati eventi. E questa volta i riflettori abbiamo deciso di rivolgerli sul mitico Mario Monicelli, uno dei papà della commedia all'italiana. Nasce quindi il Mario Monicelli Day, che segue quello dedicato a Pier Paolo Pasolini. Io, nel scegliere quale film recensire, non ho potuto far altro che rivolgermi al mio preferito del regista: Un Borghese Piccolo Piccolo.
1977: ci stiamo ormai avviando verso la morte della commedia all'italiana. quel genere cinematografico che tanto successo aveva ottenuto soprattutto grazie a quella stessa borghesia che aveva così alacremente criticato. Anche in questo caso borghesia intesa come classe sociale più che economica, colpita col classico sorriso sulle labbra dello stesso spettatore oggetto della critica. Era quella la forza della commedia brillante e spietata, divertente ma con quella vena tragica che l'ha sempre percorsa e che rivela il legame che sussiste tra questo cinema di genere e il neorealismo italiano.
Monicelli è stato sicuramente uno dei massimi esponenti della commedia all'italiana. l'ha incarnata in tutte le sue forme, ha contribuito a dettarne gli artifici stilistici. La critica col sorriso che ne mitiga la spietatezza diventa un marchio di fabbrica di questo regista che, di fatto, elevò il cinema di genere ad un'autorialità internazionale. Con Un Borghese Piccolo Piccolo però, a circa metà della propria carriera, succede qualcosa di importante, quello che a me è sembrato tanto un ribaltamento, tanto teorico quanto formale, del genere che l'aveva portato al successo.
Giovanni Vivaldi è un impiegato sull'orlo della pensione. Ma è il 1977 e la pensione, all'epoca, non era altro che l'occasione di lasciare il proprio posto di lavoro (pubblico) in eredità alla propria prole. Così Giovanni fa di tutto per oliare i meccanismi e far assumere suo figlio Mario, neo-ragioniere orgoglio di mamma e papà, al posto suo. Peccato che Mario, coinvolto in una rapina, non muoia per colpa di una pallottola vagante. Crollatogli il mondo addosso, a Giovanni non resterà altro che la vendetta per colmare il dolore.
Sin dal titolo, Un Borghese Piccolo Piccolo si palesa per quello che è: una presa di posizione nei confronti di quella che stava divenendo, da "classe" media, classe totalitaria, i cui valori e meccanismi si stavano espandendo in maniera assolutistica. Ne ho già accennato qui parlando di Teorema. E' come se Monicelli avesse urlato "la borghesia siamo noi" e mi pare di sentirlo ancora quest'urlo disgustato e rabbioso carico allo stesso tempo di auto-consapevolezza. Siamo noi con i nostri tentativi di essere e tramandare noi stessi mantenendo intatti quei meccanismi che ci siamo imposti. Noi, che siamo il nostro titolo di studi, il nostro lavoro, la concezione che gli altri hanno di noi. Che non crediamo più nella sacralità delle cose, ma ne vantiamo ancora un valore per mascherare la nostra pochezza. Noi che evitiamo le tentazioni per non cadere in tentazione e che abbiamo barattato le nostre idee individuali(stiche) in nome di valori di classe, ma che nell'individualismo prosperiamo, noi buoni a far parte della massa ma poi ognuno pensi a se stesso.
Giovanni Vivaldi è un uomo qualunque che sta esaurendo il proprio compito e che vuole solo il riposo che gli spetta assieme a sua moglie Amalia. Ma Giovanni ha un cruccio che si chiama Mario. Perché suo figlio si è appena diplomato ma non è nulla di che se non l'uomo medio, privo di particolari talenti, anche se lui, come tutti i padri, pensa il contrario. In un certo senso, per potersi davvero godere il riposo da una vita lavorativa, Giovanni deve sostituirsi, sostituire la sua figura con quella del figlio. E non potrà trovare la pace se non ottenendo che Mario prenda il suo posto di lavoro al ministero. Per fare questo, sarà disposto a qualunque cosa, a leccare qualunque culo, a unirsi persino a una loggia Massonica. Lui, che non conta un cazzo e loro, che nella parvenza di importanza che si danno, contano ancora meno. C'è l'inutile e vuota utilità rituale che rispecchia quella quotidiana in cui siamo immersi (dico siamo perché non credo le cose siano cambiate così tanto) e che si rivelano vacue quando vengono fatte a pezzi. Ed è proprio quando il ciclo si interrompe e le certezze di Giovanni crollano assieme agli artifici che lo hanno sostenuto, che qualcosa in lui si rompe per sempre lasciando il posto al "puro istinto".
Allora il signor Vivaldi non può che rifugiarsi nella vendetta. Quando la vacuità della struttura sociale che ci siamo costruiti diventa palese, quando ogni speranza nella giustizia viene meno, quando l'isolamento dell'individuo non può essere più ignorato. Allora Giovanni si dimostra una spietata figura che ricorda da vicino il giustiziere della notte di memoria charlesbronsiana, ma che parte da presupposti sociali diversi. Un controsenso vivente come la società di cui si fa specchio: ha fatto la resistenza ma cita Mussolini ("uno con due palle così"), ama sua moglie ma è maschilista e padre/padrone, crede nel rispetto dovuto al valore dimostrato ma non rispetta nessuno se non per "convenienza". Giovanni è l'italiano medio prepotente che soffre le prepotenze, che critica gli altri per le colpe di cui si macchia, che soffre l'ingiustizia solo quando la vive in prima persona. Ma riconoscendo il fallimento stesso del sistema di cui fa parte, allora cambia, nel mentre ha perso tutto ciò che lo rendeva ancora "vivo", "utile". Ed è a quel punto che si trasforma in scheggia impazzita, macchina di morte, spinto da disperazione e rimpianto.
Monicelli, come detto all'inizio, ribalta i canoni della commedia all'italiana girando un film drammatico in cui è riconoscibilissima una vena fortemente ironica e grottesca, in cui esiste ancora, in nuce, l'idea di commedia che ride di se stessa, dei difetti e dei pregi indiscriminatamente. Ma la voce del regista si fa amara ogni minuto che passa e Un Borghese Piccolo Piccolo, che parte come la più classica delle commedie all'italiana, diventa la tragica storia di un uomo come tanti privo ormai di qualunque valore positivo, che perde ogni speranza, che rinuncia a ciò in cui crede per ciò che è utile e poi torna a languire senza pur credere in alcunché. Il film quindi fa ridere amaramente e poi colpisce duro fino a far sanguinare cuore e anima. Un'opera che, tratta dal romanzo Il Borghese di Vincenzo Cerami, si trasforma in un vero e proprio revenge movie, un film teso, cattivo e caratterizzato da una incredibile violenza psicologica, che mette in evidenza la totale mancanza di fiducia del regista nelle istituzioni e in quei meccanismi in cui bisogna fa parte per forza per poter "essere". Meccanismo che ha voluto mettere in discussione fino alla fine dei suoi giorni, rifiutandolo persino al momento della morte. Film sorretto tra l'altro dalla formidabile interpretazione di un inedito Alberto Sordi che, per me, non è mai stato così bravo e da quella incredibile di Shelley Winters, che sfocia nella pantomima. Attorno a questi due attori principali gravitano tutta una serie di caratteristi che arricchiscono l'opera e la rendono viva.
Un Borghese Piccolo Piccolo è un grande film, il ritratto di un'epoca che mette in luce con amarezza le contraddizioni di un Italia che appare sempre la stessa, infondo. Non più lo stesso è però il cinema italiano, che in Monicelli ha perso non solo un grande regista, ma forse anche un grande intellettuale. E se volete leggere gli altri post scritti dai miei amici/colleghi blogger, cliccate subito sui link qui sotto:
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