(Testo di un’intervista con Francesco Bei, pubblicata in parte da Repubblica il 27 agosto 2014)
«L’Italia alla fine del 2011 era in una situazione di emergenza e lo è anche oggi. Nella stessa misura». In uno dei tornanti più difficili del dopoguerra, quando la bancarotta dello Stato sembrava davvero a un passo, fu a Mario Monti che Giorgio Napolitano si rivolse per salvare la baracca. Governando con durezza e imponendo sacrifici sgraditi sia a destra che a sinistra, ma votati dagli uni e dagli altri, ci riuscì. E di nuovo sembra soffiare sul paese un vento velenoso, che fa avvizzire ogni tentativo di ripresa. Dopo un lungo silenzio il senatore a vita torna dunque a farsi sentire. Ha visto con favore l’ascesa di Renzi e, finora, l’ha sempre sostenuto. Nello studio che fu di Spadolini, con gli studenti ancora in vacanza, il professore ci accoglie sotto un grande ritratto a olio di Luigi Bocconi in divisa, il figlio del fondatore dell’Università che presiede.
Senatore, siamo messi così male?
«L’emergenza è dello stesso livello, cambia il modo di manifestarsi. Quando venni chiamato dal capo dello Stato a formare il governo, i mercati stimavano al 40 per cento la possibilità di un’insolvenza dello Stato e i tassi di interesse erano alle stelle. Oggi la finanza pubblica è sotto controllo ma l’economia non riesce a prendere quota e costituisce anche una zavorra per l’occupazione. Il fatto che non squilli tutti i minuti il campanello dello spread non significa che l’allarme sia meno grave, anche se i giorni e le notti di chi governa sono probabilmente meno drammatici».
Venerdì Renzi metterà in campo altre riforme, dalla giustizia civile allo Sblocca-Italia. Poi ci sarà la delega sul lavoro e la riforma del fisco. Eppure sembra sempre che non basti mai, è come svuotare il mare con un cucchiaio…
«Credo che questa sensazione di impotenza derivi da due fattori. Anzitutto le riforme da fare sono ancora molte e un orologio funziona solo quando tutti gli ingranaggi sono a posto. Inoltre in Italia c’è la pericolosa abitudine di rimettere in discussione pezzi delle riforme già fatte».
A cosa si riferisce?
«Il nostro governo, a 18 giorni dal giuramento, varò con piena operatività due fondamentali riforme. Quella delle pensioni – con l’abolizione dei trattamenti di anzianità e il passaggio al contribuivo per tutti – e un’imposta sulla prima casa, la cui mancanza era difficile da giustificare, in un paese che ha un’enorme ricchezza privata, in buona parte immobiliare, e un altrettanto enorme debito pubblico. Queste due riforme non hanno soltanto salvato la finanza pubblica ma anche creato spazi per la crescita. Lo ha riconosciuto anche Graziano Delrio in un’intervista a Repubblica. Questi spazi, i due governi successivi non li hanno però destinati prioritariamente alla crescita. Letta preferì soddisfare le promesse elettorali di un partito della sua maggioranza e, invece di dedicare tutte le risorse disponibili alla riduzione del cuneo fiscale, le usò per cercare di cancellare l’Imu prima casa. Renzi a sua volta ha ritenuto di privilegiare una misura molto visibile, gli 80 euro, i cui effetti sulla crescita non sono ovvi. Intanto, il presidente della commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano, ha l’obiettivo primario di introdurre cambiamenti che porterebbero a erodere la riforma delle pensioni».
Oscar Farinetti suggerisce a Renzi di dare al paese altre due o tre «bastonate» per tornare a farsi sentire. Secondo lei cosa dovrebbe fare?
«Renzi ha dimostrato di possedere in misura spiccatissima una qualità molto rara da trovare in un politico, una dote essenziale per ottenere il consenso alle riforme. Lui sa essere un grande coach: sa palare agli italiani, sa motivarli, instillare orgoglio e speranza. E questo crea una domanda di governo, in particolare di governo Renzi».
Ma?
«Ecco, dove è ancora difficile giudicare Renzi è invece sulla reale capacità di governare. Cioè di far fronte a questa domanda di governo con un’offerta adeguata, cioè con veri e precisi provvedimenti, forti e operativi».
Sotto il tweet niente?
«Molte volte siamo stati tutti incuriositi e ammirati dalla…lucidità dei lucidi presentati in conferenza stampa. Ma non è stato poi facile capire cosa è rimasto dopo le slides».
Dunque cosa gli consiglia?
«Ho superato da decenni l’età massima dalla quale – se non si è Capo dello Stato o, forse, presidente della BCE – Renzi accetta non dico di ascoltare, ma di udire consigli. Se no, gli suggerirei di non spingere troppo in là lo sforzo motivazionale. Per esempio, quando dice che fra tre anni l’Italia ridiventerà l’economia guida d’Europa o dell’eurozona, non è credibile. Sia perché l’Italia non lo è mai stata, sia perché realisticamente è ben difficile che ciò possa accadere. Può però salire a posizioni molto migliori di oggi. Ma per ottenere questo, chi governa – soprattutto se ha il merito di essere un grande coach – dovrebbe dedicare più tempo ed energia a mettere in opera strumenti di governo. Dalla visione all’azione, dal sogno alla concretezza.».
Ormai è diventato un mantra del governo in sede europea: riforme in Italia in cambio di flessibilità nell’applicazione dei trattati. E’ solo uno slogan o c’è davvero la possibilità che la Germania accetti uno “scambio” del genere?
«Nelle discussioni europee una stessa parola acquista significati diversi a seconda della nazionalità di chi la pronuncia. In chi ascolta, soprattutto se tedesco o nordico, la parola “flessibilità” in bocca a un italiano suona spesso come “tanto poi ci si arrangerà”. So benissimo che non è questa l’intenzione di Renzi, ma siccome abbiamo purtroppo la reputazione di paese nel quale i cittadini hanno con la legge un rapporto, appunto, “flessibile”, dobbiamo prima far cambiare questa percezione».
Vasto programma, nel frattempo di austerità possiamo anche morire…
«Non è vero, basta prendere i nostri partner dal verso giusto. Qualche tempo fa conversavo con Schäuble, il ministro delle finanze tedesco. Lo stesso argomento che italiani e francesi chiamano flessibilità, ho provato a rigirarglielo in questi termini: caro Wolfgang, voi tedeschi avete avuto il merito di spingere per il Trattato di Maastricht e per il patto di stabilità, imponendo giustamente dei limiti al disavanzo a tutela delle generazioni future di tedeschi, italiani, ecc. Io ti inviterei ora non alla flessibilità ma al rigore. Applichiamo rigorosamente quello stesso principio di tutela delle generazioni future, declinandolo secondo i tempi nuovi».
Ovvero?
«Viviamo in una fase storica in cui sono calati per anni gli investimenti pubblici e si è depauperato paurosamente il capitale di infrastrutture materiali e immateriali. Perché un governo come quello tedesco, che può emettere titoli a tassi vicini allo zero, non prende a debito capitali nel mercato per fare investimenti in quelle infrastrutture, che renderebbero diciamo il 3 o il 5 % in termini di espansione del Pil tedesco ed europeo? Perché non pensare anche al futuro dei nostri figli, perché astenersi da questo investimento pubblico fatto a debito ma conveniente?».
Investimenti a debito? Schauble le avrà tolto il saluto…
«Mi ha detto che dovremmo tornare a ragionarci sopra, magari insieme».
Non si sarà proprio lei convertito a Keynes?
«Io non propongo di finanziare a debito la spesa corrente, guai! Gli investimenti pubblici, se sono veri, hanno questa particolarità: non vengono consumati oggi ma servono a stimolare la capacità produttiva futura. Possono essere visti come una componente dell’offerta».
Esiste o no la possibilità di allentare il cappio dei vincoli di bilancio?
«Nel corso del 2012, appoggiato dal presidente Hollande, mi sono battuto perché ci fossero dei margini riservati agli investimenti pubblici per quei paesi che si mantenessero entro il limite del 3% del rapporto deficit/Pil. Il Consiglio europeo e la Commissione l’hanno accettato. Ai governi italiani successivi abbiamo lasciato questa possibilità, oltre agli spread bassi, all’uscita dalla procedura per disavanzo eccessivo e agli spazi consentiti per il rimborso dei debiti della PA alle imprese. Il margine di flessibilità per gli investimenti, però, non risulta sia stato sfruttato ».