Lottizzazione portami via. Dopo l’Epifania, ecco un nuovo capitolo: il berlusconismo fai-da-te made by Mario Monti. L’anno nuovo ha portato consapevolezza mediatica nell’austero cursus imposto dal nuovo esecutivo piovuto dal cielo. Un piccolo spiraglio che soffia suadente, dopo i fiumi d’ebbrezza e le masturbazioni collettive di quel 12 novembre, che chiuse un’epoca di folate ben più energiche, e di porte spalancate. Finalmente, pare che tutto stia lentamente tornando nella normalità pre-Merkeliana: i Premier escono dalle cucine e dai salotti, fanno alzare i nipotini dalle proprie ginocchia, e si fiondano nella scatola magica.
Ѐ dunque un ricordo il mare calmo in cui Monti debuttava da Bruno Vespa all’indomani della sua incoronazione, quasi a demarcare l’evidente e stridente differenza del nuovo corso proprio lì, proprio nello studio televisivo che per tanti anni fu succursale di Arcore e appendice di Palazzo Grazioli. Lì, in casa del diverso, del brutto e dello sbagliato, a rimarcare dislivelli di stile (come sottolineato da Curzio Maltese in un articolo susseguente alla montiana conferenza stampa di fine anno) e di credibilità.
Si sa, un allenatore subentrato ad un esonero inizia sempre bene, sull’onda della reazione emotiva della squadra. Poi però, se non arriva il gioco, l’empatia può svanire, e i risultati possono non sorridere al nuovo esattamente come non sorridevano al vecchio. E così, dopo due mesi abbondanti di governo contrassegnati da innumerevoli proteste e tumultuose polemiche, le strategie cambiano. Il Monti di “Porta a Porta” era ingiudicabile, o meglio non classificabile. Quello della tournée di gennaio, invece, lo è.Perché in questi sessanta giorni abbondanti son fioccati i compiti in classe, e i risultati tradotti in riforme e manovre varie non hanno granché convinto, nonostante il solido scudo pentecostiano del sacrificio, delle lacrime e del sangue. Non hanno convinto l’apparato sociale, alle prese con trattative improbabili per guadagnare una dignità in via di ibernazione, manco fossimo tornati alla fine degli anni Sessanta. Non hanno convinto neppure l’elettore medio che, nonostante lo zuccherino della sobrietà e dello stile, avverte il retrogusto amaro della pillola. La pillola che farà pagare i danni della crisi a chi li ha subiti.
A chi non ha mai speculato, a chi non ha mai investito denaro sulla pelle degli altri, a chi è rimasto sempre uguale, sotto qualsiasi governo, mantenendo tra borbottii vari la stessa innata fiducia nei confronti delle istituzioni. A chi in questi giorni è troppo impegnato nella battaglia contro il ricco evasore, senza pensare all’eventualità che quella barricata fatta di yacht chilometrici e macchinoni blu sia solo una cinta posta per affrontar meglio l’avanzata di un’utopica giustizia sociale.Ecco che ora, quando i primi voti segnano il registro fin qui intonso, il politico esce allo scoperto e diventa personaggio mediatico, indossando la maschera del procacciatore di consensi.
La caccia ai consensi, sia che questi siano traducibili in termini di voto, sia che questi significhino semplicemente legittimità, è arte programmata. Non si può girovagare a caso, a caccia di flash. Si deve per forza scegliere, organizzare, prevedere, selezionare il proscenio. Il “Porta a Porta” non serve più. Serve una pianificazione di viaggio che tocchi palcoscenici pieni di fiori, e non di spine. Serve scenografia credibile, servono sorrisi rassicuranti e discussioni pacate, serve un atterraggio soffice: «Posso chiederle se lei è massone?» domanda Lilli Gruber, quasi a non voler disturbare o mettere in difficoltà l’interlocutore, che non ricopre il ruolo dell’intervistato, ma quello del conduttore dei giochi. O Lucia Annunziata, che riconduce tutto il malcontento anti-montiano e anti-europeo al movimento dei forconi -puntualmente e premeditatamente screditato come colluso coi mafiosi e coi fascisti- e alla Lega: «Teme una deriva populista, Presidente?» Il gioco è abile e scaltro. Le riforme son deliberate dal governo del Presidente, le riforme taglieranno e imporranno sacrifici al popolo, eppure è proprio il Presidente a dover temere il popolo, e non viceversa. Ѐ lui nella situazione di pericolo, è lui a dover essere tutelato. Sintesi paradossale figlia dell’ingegno comunicativo. Scene già viste, in questi anni. Scene figlie del Re dell’ingegno comunicativo, colui che ha saputo mascherare l’inettitudine con arte mediatica. Scene demonizzate, fino a pochi mesi fa, con manifestazioni che riempivano le piazze inneggiando alla libertà di stampa, strillando contro l’impero mediatico, parlando di anomalia italiana, di dittatura, e di quant’altro.Chissà cosa avrà pensato Silvio, ammirando il suo successore nelle nuove vesti di protagonista catodico. Più o meno, nell’imperante logica arrivista, avrà partorito la stessa reazione che può nascere davanti al collega che in ufficio ti scavalca, sfruttando una tua idea. In principio fu Tribuna Politica, il teatro del posticcio pluralista. Poi venne Silvio, e il posticcio divenne “ad personam”. Ieri il carisma fiammeggiante e un po’ pacchiano, oggi il carisma silenzioso e autorevole. Ieri “Matrix” e “Porta a Porta”, oggi “Otto e Mezzo” e “In ½ Ora”.
Insomma, pare che Berlusconi manchi a tutti. Tranne che a noi.
(Pubblicato sul “Fondo Magazine” del 23 gennaio 2012)