Tommaso Labate ci offre l’occasione di affrontare una questione assai delicata sul piano morale, per certi versi affine a quella che si pone quando muore un pezzo di merda: rimane il pezzo di merda che era o si deve chiudere un occhio, cioè una narice? Se in quel caso pare debba prevalere il «nisi bonum de mortuis», qui Labate sembra voglia consigliarci la solidarietà umana nei confronti del condannato, anche quando la condanna sia per reati abietti. E non si limita a dissuaderci dal maramaldeggiare, sia chiaro, ci suggerisce proprio la solidarietà umana o, in subordine, un po’ d’indulgenza alla sua solidarietà umana nei confronti del pezzo di merda.«Dalle parti mie– scrive – c’era tanti anni fa un uomo molto potente e in odore di massoneria. Un uomo perennemente circondato da un inimmaginabile codazzo di gente, gente povera e gente ricchissima, a cui verosimilmente elargiva nel primo caso elemosine, nel secondo favori un po’ più consistenti». Qui è opportuno fermarci un attimo per cercare di dare contorni più netti a questo personaggio. Labate è nato nel 1979 a Marina di Gioiosa Jonica, un paesino di poco più di 6.000 anime, in provincia di Reggio Calabria, che da almeno 40 anni è in mano a due ’ndrine, quella dei Mazzaferro e quella degli Aquino, che si contendono da sempre, a suon di morti ammazzati, un imponente giro di malaffare (estorsione, usura e traffico di stupefacenti) con tentacoli ben radicati in Lombardia, in Liguria, in Germania e in Belgio. Che tipo di profilo assume, in un contesto del genere, un personaggio descritto come «un uomo molto potente»? È azzardato dedurre che si trattasse di Vincenzo Mazzaferro o di Salvatore Aquino? E perché Labate dice che era «in odore di massoneria» e non fa alcun cenno alla ’ndrangheta? Una mezza idea ce l’ho, ma la esporrò alla fine, d’intanto chiariamo che tra esponenti della famiglia Mazzaferro e la massoneria deviata sono documentati legami tra gli ultimi anni ’80 e gran parte degli anni ’90.«Ero bambino – prosegue Labate – ma ricordo come se fosse oggi il disprezzo, il distacco umano e la profonda antipatia che mio padre nutriva nei confronti di questa persona. Come a dire, “neanche un caffè”.Una volta, però, questo signore finì in una clamorosa inchiesta della magistratura che ne azzerò in un colpo solo la mastodontica corte di leccapiedi e pure il potere». Si tratta dell’operazione «Leopardo» (1992) o dell’operazione «Fiori della notte di San Vito» (1994)? Non ha importanza, in fondo. Proseguiamo nel racconto di Labate: «La sera della prima vigilia di Natale da quel tracollo, ma questo l’avrei saputo dopo, mio papà – che con lui, prima, “neanche un caffè” – comprò una bottiglia di champagne e andò a trovarlo per gli auguri. Immaginava una scena, mio papà. E infatti se la ritrovò davanti proprio come l’aveva pensata. Di fronte a quel portone in cui nelle precedenti vigilie di Natale la gente s’accalcava, non c’era più nessuno. Manco un’anima. Nessuno. Solo mio papà. E la sua bottiglia di champagne. Su quella persona mio papà non ha mai cambiato il suo giudizio precedente. E penso che, dopo quella volta, non si rividero più».Qui, alla luce di ciò che Labate ha omesso, è superfluo ogni commento. «Non c’era più nessuno», ma in causa si deve chiamare solo l’umana ingratitudine? Nessuna attenuante per l’«inimmaginabile codazzo di gente» che prima circondava l’«uomo molto potente»? Diamo per scontato per tutti sapessero chi fosse, che genere di affari trattasse, e che solo «mio papà»riuscisse ad avere nei suoi confronti un atteggiamento moralmente ineccepibile: ma fu solo l’umana ingratitudine a fare il deserto «di fronte a quel portone»? Sul piano morale possiamo condannare un cliens che abbia paura di essere considerato socius dalle forze dell’ordine che sorvegliano l’abitazione dell’indagato? Chi può permettersi di andare a stappare una bottiglia di champagne con lui? Solo chi non è mai stato cliens, è evidente. Rimane tuttavia da stabilire se un tal gesto di solidarietà con chi sia caduto in disgrazia possa essere giustificato di là dai motivi che hanno provocato la caduta. «In odore di massoneria», forse. Ma reo di crimini odiosi?Labate scrive: «Io so che a tutti quelli che certe volte sbarrano gli occhi e mi chiedono “come c...o sei fatto?” e “che cos’hai nella testa?” vorrei raccontare questa storia. Quest’insegnamento che ho preso e che non dimenticherò mai. Questa cosa di mio padre che avrei fatto nello stesso identico modo. E che rifarei di fronte a un portone deserto davanti a cui prima si accalcavano le masse, che rifarei alla vigilia di Natale, che rifarei comprando una bottiglia di champagne, che rifarei pur conservando intatto il giudizio precedente sul Re corrotto e osannato, poi caduto e abbandonato. Che rifarei si chiami esso Mario Rossi, Giuseppe Verdi o Silvio Berlusconi».Non avevate immaginato dove volesse andare a parare? Siete degli ingenui, bastava sentire come montava il climax. Via, tutti a Palazzo Grazioli, a Natale. Tutti con una bottiglia di champagne. In cambio, poi, Labate ci fa il favore di dirci nome e cognome del tizio col quale brindò suo papà. Era Mario Rossi? Era Giuseppe Verdi?
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