Mario Soldati e il suo doppio

Creato il 22 settembre 2011 da Sulromanzo

" Non riuscivo a far combinare ciò che mi era successo e che ancora mi fa soffrire con la trama che avevo immaginata. Sono troppo angosciato e non posso inventare nulla, neanche mascherare i miei ricordi e i miei rimorsi. Posso soltanto confessarmi. Ecco tutto." [...]...avevo bisogno di raccontare non soltanto a un amico ma perfino a me stesso, raccontare questa serie di avvenimenti che ricordo e ripenso senza tregua, come un peso, come una montagna sul cuore, che mi schiaccia. E raccontare è l'unico sollievo.

In queste parole, che Soldati attribuisce al personaggio di Harry nel romanzo Le lettere da Capri, mi sembra di vedere proprio una dichiarazione di poetica di Soldati stesso. Vale a dire nella necessità e nella capacità che questo scrittore ha avuto di raccontare se stesso parlando di altri, di dire Io usando la Terza persona. E non è casuale questa modalità, ovviamente, perché è come se in un certo modo Soldati raccontasse sempre fatti e pensieri ad un interlocutore immaginario, che è poi un altro se stesso. Perché in buona parte dei suoi racconti e romanzi, la cifra stilistica del doppio ricorre quasi ossessivamente.

L'ossessione si fa chiara a partire forse da un romanzo breve del 1957, Il vero Silvestri. Di cui non anticipo molto perché si tratta di una trama con una certa suspense, a metà tra il giallo e il noir, anche se le implicazioni concettuali sono ben più complesse. Due persone, un uomo e una donna, si ritrovano a parlare insieme di un amico comune, Gustavo Silvestri, fornendone contemporaneamente un ritratto diverso e tuttavia speculare. Ma chi dei due avrà ragione? Chi avrà avuto la percezione più aderente alla realtà profonda dell'amico, che forse, pirandellianamente, è incomprensibile?

Poi, nel romanzo Le due città, successivo, il dualismo si esprime già nel titolo. Si contrappongono Roma e Torino. Sono descritte nella loro storicità, Torino dopo i fasti dei Savoia, Roma come sfondo all'avvento del fascismo e della guerra. Ma diventano, tramite la lente d'ingrandimento del protagonista, città dell'anima, come accennavo nell' articolo precedente.

Torino è la città dell'infanzia, delle memorie che si credono perdute, delle aspettative e dei condizionamenti familiari, come quelle che pesano sul protagonista bambino a proposito di un'eredità vagheggiata e soprattutto sulla necessità di ascendere la scala sociale fino a posizioni di ricchezza e prestigio. Tuttavia rimane però sempre la città degli affetti incontaminati, del culto di un'integrità morale perduta e proprio per questo idealizzata (quasi tutte le opere di Soldati sono attraversate come una lama da questa poetica dell'oggetto amato perché idealizzato e già perduto, proustianamente), che il protagonista ricorderà nella vita con la percezione che ne aveva avuto da bambino.

Poi c'è Roma. La città dell'età adulta, della perdita di un'innocenza primigenia, della tanto desiderata escalation sociale, dello scendere a compromessi con gli altri e con la vita, ma soprattutto con se stessi.

Due donne diventano i simboli antitetici di questi due atteggiamenti dell'anima: Veve, giovanissima e pensata per sempre tale perché mai più incontrata di nuovo e quindi mai smentita nella sua incomparabilità; Elena, la moglie, con cui Emilio condividerà la ricchezza e gli status symbol, dal palazzetto mollemente sontuoso di via Gregoriana, alla poetica degli oggetti decorativi quanto inutili, e fragili, metafora indiretta di una sicurezza raggiunta solo apparentemente.

E poi i grandi temi: amore amicizia ricordo sentimento lavoro impegno politico; dove tutto però rivela una doppia faccia, un versante contrario, uno stravolgimento della realtà creduta e immaginata. Dove il protagonista si muove come un acrobata, con apparente leggerezza e amore per la vita, eternamente in bilico tra le due strade che potrebbe percorrere se fosse più deciso, più convinto dei suoi desideri. Di quelle due, ne sceglie sempre una terza, confusa e contraddittoria, che gli regala l'illusione adolescenziale di non dover scegliere mai, e che ci sia sempre tanto tempo ancora per poter scegliere; anche di due donne, Emilio ne sceglie sempre una terza: quella che gli sfugge, che meno dovrebbe incatenarlo ad una routine che lui aborre e vede come il logoramento dei sentimenti, il fallimento dell'amore. Proprio per questo appare un personaggio in eterna disponibilità, come la definizione che il grande critico Giacomo Debenedetti dava del Mattia Pascal pirandelliano. Con la differenza, però, che mentre Mattia Pascal raggiunge pur nel fallimento una sofferta consapevolezza, Emilio non giunge mai a comprendere profondamente la sua scissione; fino alla fine, dove saranno gli eventi, e ancora una volta gli altri, a decidere per lui.


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