Marion in Berlin. Non chiudete quella porta

Da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

- Come va Marion? Avverti un certo spaesamento?

- Certo. Come quando sono entrata al Black Out di S.Giovanni con la kefiah e la maglietta con la faccia di Lupin, comprata a via Sannio. Ho rischiato una catenata da un darkettone.

- Come hai potuto?….

- Venivo da una manifestazione e non ho avuto il tempo di cambiarmi.

- ..Che ti serva da lezione.

È bello sapere che al mondo ci sono amici che ti supportano. Ma la mia amica italiana non conosce le recenti imbarazzanti situazioni.

Nel mio lavoro da barista in un ristorante italiano mi sono presentata con la camicia bianca canonica: peccato che a fine agosto Berlino corrisponda ad un pungente novembre romano e, dunque, sotto avevo riposto con cura un maglioncino rosso leggero, quasi nascondendolo. In tarda sera, però, è sbucato fuori dalle maniche e dal colletto, creando un rozzo effetto da macellaio.

Tuttavia da “Da Mario” non se ne accorge nessuno, per il semplice fatto che ci sono tre tavoli a sera e la conseguente noia prelude al suicidio, soprattutto quando inseriscono i greatest hits di Toto Cutugno.  Perché Mario ha pochi clienti? Ognuno dice la sua. C’è chi spazia dalla microeconomia applicata alla ristorazione, c’è chi giustifica sempre il tutto con il cambio di stagione.

- Marion, stasera puoi fermarti un po’ di più? Forse vengono dei miei amici sul tardi.

Bella fauna gli amici suoi. Della loro migrazione degli anni ‘80 hanno conservato tutto, dalla pettinatura alle fidanzate; d’altronde perché rinnovare lo stile? È già un trauma cambiare città, nazione, clima. Non fa una piega.

Le loro fidanzate! Se mettessimo uno spago attorno alle loro caviglie potremmo in seguito cuocerle come un appetitoso rollè. Quando usano lo stuzzicadenti, poi, sono il culmine della sensualità.

Un certo flusso dei pensieri è l’unica arma di sopravvivenza “Da Mario”. Tranne quando i due soci litigano furiosamente e il nuovo cameriere lancia lo sgabello contro il nuovo cuoco, dopo avermi rivelato quanto è importante per lui l’autocontrollo..

Da domani cambiamo classe. Franz ci ha illustrato come è possibile non perdersi nell’edificio scolastico. Dunque: la nuova classe è ubicata al piano terra e vi si accede da una porta secondaria in fondo all’ingresso principale. Questa porta – continua a spiegare Franz con aberrante minuzia crucca – ad una “certa” (ma come?! non lo sai Franz a che ora?) si chiude, e si arriva alla classe solo attraversando corridoi interni e cortili.

Sembra una cosa seria.

Franz concretizza le sue parole facendoci fare tutti insieme un percorso ragionato.

Nei giorni seguenti il pensiero che sovrasta gli altri non sono le preposizioni con il dativo, bensì la porta.

Comunque io l’ho sempre trovata aperta. A tutte le ore.

Mi sono redenta dagli italiani: dopo vent’anni a Berlino non sono cambiati poi molto, a parte imparare il tedesco. Preferisco lavorare in ufficio con Isolde.

Isolde è una ragazza di Potsdam, una piccola cittadina tardo impero fuori Berlino, assalita dai turisti per le residenze dei re di Prussia che io visitai in terza media. Isolde ha le unghie da porco ma la voce gentile. Non ama molto fare movimento, infatti piuttosto che alzarsi dalla sedia della scrivania preferisce rimanerci ancorata e ruotare per i corridoi in cerca di informazioni.

Si stanca subito Isolde. Alle 11.40 del mattino il telefono e la tastiera del suo computer sono ricoperti di cartacce di merendine al cioccolato. Deve essere davvero rapida a scartare, chiaramente agevolata dalla manicure suina.

Un giorno squilla il telefono. Mi chiama spaventata: non capisce. Prendo la cornetta e dall’altro capo qualcuno parla in inglese.

- Pronto?

- Eh? Spanisch?

Macchè spanisch.

- Isolde ist italienisch nicht. Das ist englisch!

Isolde si risiede e con le ruote della sedia si lancia verso il collega americano.

Dalla donna con le ruote alla mendicante orgasmica il passo è breve.

Dopo la scuola mi rilasso sulla metro, rileggendo i miei appunti. Mercoledì ho scoperto che c’è qualcuno che si rilassa più di me. Salgono due quarantenni ancora gradevoli ed eleganti. Si siedono in fondo e, dopo due minuti, una delle due inizia a simulare un orgasmo talmente bene che quasi mi viene il dubbio che finga.

Finito il concerto, l’altra si avvicina con un basco rivoltato chiedendo delle monetine.

Finora avevo viaggiato con tutti: dal tizio che porta a spasso il suo pitone neonato attorno al polso agli ubriachi in mutande.

“Chissà quanto si guadagna a simulare orgasmi sulla linea U4” mi chiedo, mentre attraverso la stazione di Südkreuz, fermata utile e pratica per raggiungere l’Ikea, senza dover attraversare autostrade e senza dover aspettare il bus in autogrill.

Alcuni salgono trafelati con la bicicletta alla cui estremità è legato un cartone di Ikea.

Il momento migliore, però, è quando la metro di superficie costeggia l’ex aeroporto di Tempelhof, ora adibito a parco senza alberi e pista per bici e pattinatori.

Allora mi viene da ridere perché gira che ti rigira siamo tutti sotto il tendone da circo di un qualsiasi città ex impero, e immagino una storia su un cieco ai tempi del Muro, anche se non centra nulla, ma c’è un cieco davanti a me, e mi commuove pensare alla sua percezione di una città divisa.

Natasha “Eva Kent” Ceci


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