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Marisa Papa Ruggiero: le forme provvisorie

Da Narcyso

Marisa Papa Ruggiero, DI VOLO E DI LAVA, puntoacapo 2013

ruggiero
Questi testi analizzano poeticamente la materia in formazione: “Provvisoria ogni forma trova / una declinazionne eccentrica / in attesa di nome”.
Siamo nel regno di appartenenza delle forme naturali scagliate verso il desiderio di un nome, di un senso.
La risposta, però, è che la creazione non ha sensi, e forse non vuole nomi. La materia si contorce, si raffredda, poi si disfa nuovamente, e questa è la sua giustizia. Qui il compito, come sempre, è della parola per se stessa, per la propria forma.
In che modo avviene, allora, questa descrizione di materie in fibrillazione? Utilizzando sfrigolii, assonanze e dissonanze, immagini di geometrie e strumenti per misurare l’immisurabile; paesaggi osservabili ad occhio nudo inquadrando i particolari con una lente di ingrandimento. Una mappa arborea, per esempio, si porta con sé tutte le immagini che la contengono. Dalle materie primordiali, la mappa si estende, infatti, alle fragilità floreali, alle sostanze del verde e agli animali che lo abitano: “sacrario di verdi uccelli / dalle ali scure”; “chiocciole in basso (che) danno argentee striature”; “fruscii rasoterra / fra le felci”.
Insomma, “un teatro minerale / a cielo aperto” di cui anche noi facciamo parte, immersi, volenti o nolenti, nella memoria fossile delle cose: “Se col corpo circondi i suoi confini / non ne cingi il segreto / ne fai parte”, slavati anche noi ” dalle piogge / rabbiose pazienti piogge / di sali sismici e frane”.
Mi viene da pensare, allora, leggendo questi versi, quale sia veramente il nostro tempo se non quello dell’istante in fervore, la breve epoca che ci è concessa. E avevano ragione gli antichi Egiziani a contare il tempo tutte le volte, partendo dall’avvento di un nuovo re? E non è sempre nuovo il tempo/avvento di un nuovo essere? Forse il tempo consiste veramente nella facoltà di percepirsi attraverso qualcosa che è fuori di noi, mentre noi pensiamo di poter misurare le infinite pulsazioni che ci circondano e sono esse, invece, che ci misurano:

Ruotare il corpo cercare
il punto d’intarsio
con la pelle del bosco

avviene
per attrazione dei contrari
il paesaggio dei profili
avviene pensarmi adesso
in altre pulsazioni
e mi vedo coincidere
con lo stesso campo visivo

della sovrana roccia che mi guarda

e mi sconfina in un dettaglio
fuori asse
che rompe dentro
l’assetto delle parole
se penetro nel fitto
potrei smemorarmi
sparire

p. 29

Esiste, poi, un altro modo per leggere questi versi: e cioè la rivelazione, il regno di pertinenza dell’assenza, “questa / taciuta assenza / che non ha misura”, p. 34. Scoprire che la morte abita le cose come promessa di dissolvimento, di restituzione di un pegno, del dono ricevuto della vita.

La feritoia pronuncia
disastri
lì sul taglio angolare
in pieno giorno
fin dove la ruggine s’è spinta

alla radice dell’urlo
al tonfo minerale di ogni osso
all’arteria in disuso
del Prigioniero
patita a strati

patita a strati
nel sottosuolo
del Massacro

p. 38

Questi disastri, questi assemblamenti/smottamenti che si organizzano in forme, altro non sono che tracce di una morte che vuole esistere, immagini provvisorie della dissoluzione “che conducono al fuoco / non all’acqua”, del “demone dentro il masso / (che) è forza divorante”. E infine, “ascolto muto che attende il nuovo sisma”.
L’alfabeto esiste prima dell’alfabeto ed è Ananke: la necessità.

Sebastiano Aglieco


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