Marlene DUMAS Pour qui sonne le glas 2008 huile sur toile 100×90
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di Andrea B. Nardi
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Marlene Dumas è uno di quei rari artisti contemporanei in grado d’emozionare sia lo smaliziato conoscitore dei linguaggi moderni, sia il neofita digiuno d’ogni altra espressività posteriore, mettiamo, tanto per cambiare, agli impressionisti.
Nata in Sud Africa nel 1953, ma europea – olandese – d’adozione, questa pittrice è in attività da oltre quarant’anni, eppure le sue opere non hanno mai smesso di, e continuano tutt’ora a, incarnare sorprendentemente lo spirito della nostra epoca. The image as Burden è giusto il titolo della mostra retrospettiva a lei dedicata dalla Fondazione Beyeler – vera garanzia nell’attività espositiva d’alta qualità – a Riehen/Basel dal 30 maggio a metà settembre di quest’anno, curata da Samuel Keller.
“L’arte non è uno specchio. L’arte è una traduzione di ciò che non si conosce”. Così afferma la Dumas nel 2003, fornendo la chiave principale del suo lavoro. Surfando fra il figurativo e l’informale, raccogliendo le esperienze espressionistiche fino convogliarle nel graffitismo, spogliando l’astrattismo fino a ridurlo a ready-made, guadando il Nieuwe Wilden degli anni 80, l’artista trova infine una sua personalissima strada pittorica nella ritrattistica – diciamo così – metacarnale. Il soggetto ritratto, il volto o il fisico, spesso nudo, va oltre, infatti, la mera corporeità, il puro aspetto fisiognomico e caratteriale, lambendo invece gli abissi non solo dell’indole umana, ma dell’intera condizione esistenziale terrena, assurgendo a rappresentazione etica della vita. Una traduzione, appunto, delle profondità inconsce e terribili di cui è capace la condizione antropica. Un fardello insostenibile se fossero sempre palesi, invece che celate ben al di sotto della nostra epidermide. Alla Dumas il compito di farle scaturire nelle sue tele, ed ecco che l’immagine, quella vera, si aggrava al punto di diventare macigno. Le sue facce, i suoi corpi, trasudano sessualità, amore, morte e colpevolezza, spesso contemporaneamente, vorticando in un orrore orgasmico ancestrale. Perfino i visi dei bambini, e dei neonati, non riescono a trattenere il marchio di un’infamia e di una crudeltà antiche, sempre pronte a riemergere, non disgiunte dal consapevole terrore che ciò accada. In fondo, l’uomo, è sempre il miglior demone di sé stesso.Significativo anche il metodo lavorativo dell’autrice, contraria all’uso dei modelli in carne e ossa, a cui preferisce le fotografie da cui ricava i ritratti: per non avere nessuna relazione empatica col modello, nessun rapporto umano, nessun rischio di distorsione culturale, sensoriale, sentimentale o sensuale. Figlia del suo e del nostro tempo, riprendendo la Pictures Generation, la Dumas studia con cura il rapporto pittura-fotografia, scoprendo una dinamica precisa in cui quella trasforma questa, in cui entrambe si scambiano connessioni elaborandosi a vicenda, modificandosi e arricchendosi. Questa metamorfosi dell’immagine che scorre da un supporto all’altro rispecchia l’ulteriore trasfigurazione, intestina all’anima dei viventi, in cui si alternano di continuo i veri opposti della vita: la bellezza, il cui vero contrario non è la bruttezza bensì la morte, la quale, poi, non può non contrapporsi anche all’amore.
Incontrare le opere della Dumas è un’esperienza molto forte, pregna di implicazioni destabilizzanti: l’ideale per immaginare nuove prospettive inconsce, nuove visioni interiori, nuovi inizi di rapporti fra umani. Da non perdere.
Marlene Dumas – The image as Burden, Fondazione Beyeler, Riehen/Basel dal 30 maggio a metà settembre 2015, www.fondationbeyeler.ch, [email protected]
Catalogo: Marlene Dumas – The image as Burden, editors Leontine Coelewij, Helen Sainsbury, Theodora Vischer, pubblicato da Fondazione Beyeler, 2015, pp. 193.
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