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Salito in vettura cerco rapidamente il controllore perché la fermata è a richiesta, Marone “non esiste più”, il suo cuore un tempo pulsante fatto di pietra d'inverno ed erba tenera in primavera ha preso la strada delle nuvole.La ferrovia Vigezzina, sguardo rivolto verso Locarno, già punta il confine e dopo avermi gentilmente scaricato con puntualità elvetica prosegue il suo itinerario.Pallidi e pesanti lastroni di sasso sono tutto ciò che resta dell'impalcatura su cui si reggeva il paesino, e che la tenue luce di marzo tenta di riscaldare accarezzando quegli angoli bui di stelle appassite all'ultimo sole, dove volti umani non sono più; solo qualche timido avventuriero, prevalentemente svizzero, sale fin quassù (662 m.) in cerca di aliti di passato sulle sbiadite tracce della fatica fatta di mani nodose e sguardi coriacei.Lasciandosi alle spalle la minuta e deserta stazioncina scendo per gli ampi prati, ancora ben tenuti, giungendo tra le rovine di questo borgo incastonato tra la pianura ossolana e le prime propaggini della Val Vigezzo.Il silenzio è assordante, rotto solamente da un sommesso e surreale sibilo che la ferrovia produce quando approda in prossimità di Marone; la risonanza appena accennata cresce lentamente fino a perdersi di nuovo inghiottita da buie gallerie, gelide ombre di boschi e ponti immensi e spaventevoli.Di nuovo solo rumore di passi, i miei, e del cuore che pulsa nelle tempie. Un topolino infastidito dall'insolita presenza umana si getta tra i rovi dopo essere stato sfrattato dalla chiesa ormai sconsacrata di Sant'Antonio Abate.Le fosche porte di questi rurali edifici sono spalancate, le stalle desolate accolgono solo ombre di trascorse stagioni, da qui son fuggiti tutti, ma perché?Alcuni oggetti di uso quotidiano attirano l'attenzione, appaiono quasi fuori posto in questo arido deserto alpino. Cose semplici, cose e ombre. Testimoni di un passato agreste ed autentico; un mestolo per la raccolta dell'acqua, uno sbeccato pentolino bianco ricamato con scherzosi fiorellini multicolori utilizzato forse per riscaldare il latte nelle fredde mattine di gennaio, una vecchia scarpa rotta e dimenticata tra i massi e le ortiche, oggetti come impronte di vita.Mi torna alla mente Enzo Guatelli stupendo signore di origini emiliane che trascorse la vita raccogliendo nel suo cascinale più di 60.000 oggetti dall'aspetto apparentemente insignificante. Barattoli, chiavi, bulloni, viti, scarpe rotte o rammendate, giocattoli, topi essiccati, imbuti, nidi di uccello, cacciaviti e centinaia di altri arnesi destinati all'abbandono. I suoi occhi e la sua singolare sensibilità riuscirono a ricomporre queste cose condannate all'oblio con una genialità fuori dal comune donando loro nuova vita all'interno della cascina-museo, specchio di un'Italia ormai perduta ed ancora distante dal dilagante consumismo.Proseguo; seguendo la severa ombra del campanile mi imbatto in un'insolita parete affrescata, decido qui di consumare il mio frugale pasto contemplando ciò che resta di quest'opera realizzata da un autore ignoto. La quiete di questo luogo mi conduce in un minuscolo angolo, nascosto e dimenticato, dentro me donandomi illusioni di serenità ormai perdute, di lieti giorni dileguati nell'antico regno dell'infanzia proiettandomi in un contesto dai toni onirici e nostalgici.Poco dopo alzo lo sguardo, sorride un cielo limpido e due alianti volteggiano silenti sopra la croce di Rovareccio; il loro moto è circolare e costante, il sole alto di marzo intiepidisce i pendii e probabilmente proprio qui sopra si è generata una termica; chissà se anche da lassù stanno osservando questo fragile ed irregolare ammasso di piode sfondate.Nuovamente il vento si diletta a suonare, i vagoni arrancano salendo da Trontano, questa volta sembrano rallentare, il convoglio effettuerà la fermata. Ma è solo un illusione che pian piano si dissolve.Mi rialzo, carico lo zaino sulle spalle ed eccomi al cospetto del piccolo cimitero, un quadrilatero di pochi metri custode di una manciata di anime che qui hanno deciso di riposare per l'eternità.Tra i fiori crocefissi sulle tombe osservo come vivono i morti di Marone . Testimone il muto campanile e le sue lancette immobili da più di trent'anni; qui il tempo non conta, ha smarrito il suo valore a cui noi gracili omuncoli abbiamo attribuito e per il quale inutilmente ci affanniamo dilaniando la nostra esistenza.Resto qualche minuto in contemplazione, da lontano oltre Bognanco scorgo le vette severe della Weissmies e del Lagginhorn imprigionati nei loro ghiacci eterni. Da Paiesco sale un mite alito di vento, di fronte a me la frana di Travello prosegue inesorabilmente dal 1500.Esco, accosto il cancello e mi dirigo di nuovo verso il sagrato della chiesa alla ricerca del sentiero per Verigo. Ma l'ingresso della parrocchiale è sinistramente murato. Legno e pietre....qualcuno non deve fuggire? ...chi hanno imprigionato per sempre tra quelle pareti? Forse le anime e gli spiriti che abitavano tali luoghi ora lietamente al cospetto di un Dio buono.Lascio Marone, intabarrato in un pernicioso enigma, inoltrandomi tra i suoi glabri boschi di castagno ancora senza venatura di foglia e cullato dalle profonde vibrazioni che questo incantevole angolo di Piemonte è in grado di risvegliare mentre il treno da lontano si avvia nuovamente verso la prossima stazione...
Filippo Spadoni
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