Jim Marshall, The King of Loud. A chi di noi non è mai accaduto di posare lo sguardo su quella candida scritta in rilievo sugli amplificatori, mentre si accordava la chitarra, o mentre si attendeva che i propri compagni di sogni allestissero le proprie strumentazioni in attesa di un paio d’ore di fragorosa espressione artistica, nel garage sotto casa, o nella sala prove più economica del quartiere?
Quella scritta bombata, Marshall. L’amplificazione dei sentimenti e delle emozioni, il nome che diede voce alla ribellione, al grido generazionale. Il marchio che rivoluzionò la storia del rock, sul finire di quegli Swinging Sixties, durante quel passaggio epocale che marchiò a fuoco l’istinto generazionale, togliendo il velo di malizia, innaffiando chiome, basette e barbe da impegnati.
Certo, le chitarre elettriche esistevano già. Già dagli anni ’40 si era intuito che la scarica elettrica avrebbe potuto dare nuova linfa e nuova decodificazione del messaggio blues, già marche prestigiose come Fender, Les Paul o Gibson, avevano cominciato a produrre e a mettere sul commercio amplificazioni per chitarra. Jim Marshall, però , con l’intuizione propria di chi era musicista prima ancora di essere tecnico o business-man, creò l’universo parallelo del suono: non più esclusiva amplificazione, ma arte e passione nel modellare tensioni elettriche.
Ecco dunque l’amplificatore inteso come scatola magica, in cui il chitarrista poteva trasformare a suo piacimento pennate fino ad allora troppo piatte per esprimere sensazioni così impetuose e varie. Non più strumento di diffusione, ma vero e proprio strumento musicale. Non soltanto volume, ma vera e propria arte del suono. Senza Jim Marshall non avremmo potuto scuotere teste, gridare con il dito puntato al cielo, accendere e incanalare quell’energia propria di chi rompe i silenzi e fa breccia sui muri della melodia, partendo dal silenzio più assordante. Scoprendo al di là della piccola crepa un universo inesplorato, dove il miele si nasconde tra le righe, e accompagna impulsi stridenti a voltaggi altissimi.Senza Jim Marshall, Pete Townshend non sarebbe stato Pete Townshend, Hendrix non sarebbe stato Hendrix. Senza Jim Marshall il Metal non si sarebbe chiamato Metal. Nessuno si sarebbe sentito un rocker consumato, premendo semplicemente un interruttore.
Perché in fondo, il rock venne pasciuto in quel negozio di musica ad Hanwell, non da un imprenditore, ma da un musicista, non da un business-man, ma da un vero cultore di musica e arte. L’unico uomo che creò un diverso concetto di “muro”. Il muro eretto per emozionare, per innalzare e per abbattere. Il muro edificato per veicolare messaggi, sentimenti, palpitazioni e spasmi artistici, in un mondo di muraglie tese a conservare, a inibire, e a strozzare libertà.
(Pubblicato su “Gli Altri Online” del 5 aprile 2012)