Il mio professore di Semiotica all’università amava ripetere un adagio: «ricordate che chi ha letto un libro in più di voi, ve lo potrà sempre mettere nel…» et cetera, et cetera. Il mio professore di Semiotica all’università si chiamava come una marca di vino a buon mercato. Nomen omen, dicono, e di fatto non ho mai conosciuto nessuno altrettanto stucchevole, acido, eppure in un certo qual modo sincero. E poi si sa, in vino veritas.
L’America è un paese giovane e sono state scritte miglia di parole circa il presunto complesso di inferiorità della cultura statunitense verso quella europea, ed in generale verso qualsiasi cultura abbia più di duecento anni. Non so se mi sento nella posizione di affermare che la cultura media Americana sia bassa o meno. Di certo è composta di nozioni popolari che agli occhi di un Europeo risultano accessorie, infantili anche, luccicanti ma evanescenti.
Il pensiero Americano è forse un pensiero debole e questo potrebbe in parte giustificare la facilità abnorme con cui culti, o i sistemi di pensiero “alternativi”, prendono piede nel paese.
Chi ha letto un libro più di voi vi fregherà sempre.
Il regista americano Sean Durkin ha deciso di fare di questo tema il fulcro drammatico del suo film d’esordio: Martha Marcy May Marlene.
Martha (Elizabeth Olsen) è una giovane donna che fatica a rientrare nei ranghi di una vita normale, dopo aver trascorso due anni in una fattoria sulle montagne dello stato di New York. Questa sorta di comunità utopica è gestita da Patrick (John Hawkes), carismatico leader, amante delle musica e soprattutto avido di letture filosofiche. Riappropriarsi di sistemi valoriali e comportamenti borghesi è per Martha, una volta fuoriuscita dal culto, un’esperienza estremamente difficoltosa, resa quasi impossibile da una tendenza al pensiero paranoide e da preesistenti nodi emotivi irrisolti.
Martha Marcy May Marlene ha debuttato al Sundance ed è stato ospitato a Cannes nella sezione Un Certain Regard. Sean Durkin, golden boy del cinema indipendente americano dopo la vittoria come miglior regista al Sundance, ha chiaramente molte frecce al suo arco, vanta un background artistico notevole e di certo non si accontenta di un’enunciazione semplice. Basti pensare che decide di fare interpretare il ruolo principale alla giovane Elizabeth Olsen, sorella minore delle ben piu’ celebri Mary-Kate e Ashley, coppia di gemelle baby star ora a capo di un impero mediatico.
Insomma, come dire, vi parlo della fragilità culturale del mio paese, vittima partecipe dell’istupidimento causato dal sistema dei mezzi di comunicazione di massa, servendomi però di uno dei suoi prodotti più riconoscibili. Un po’ come fece Godard quando ingaggiò la Bardot. Il paragone va preso con le dovute cautele ovviamente.
La scelta della Olsen ha senso tuttavia non solo dal punto di vista metalinguistico. Ha senso soprattutto perché la sua performance è fenomenale. Calibrata ma intensa. Perfetta. Non ricordo l’ultima volta che ho visto tanta ricchezza e profondità in un’attrice così giovane. La trasformazione di Martha in Marcy May Marlene è veicolata in maniera impercettibile, eppure quanto cambiamento nei gesti, nella modulazione della voce, nella prossemica. Elizabeth Olsen fa il film. E lo salva.
E questo è il punto dolente della questione.
Nonostante le premesse e le promesse, nonostante le tematiche coinvolgenti e dai risvolti drammaturgici infiniti, il film cade piatto. I primi venti minuti sono tonici, incalzanti. Poi tutto si siede. Pare di assistere ad una prova della nostra nazionale di calcio… Non saprei davvero da dove iniziare la mia lamentatio. Da un montaggio così insipido che manco i tutorial di final cut online? O vogliamo parlare dei dialoghi? Prevedibilità allo stato verbale. E in tutto questo gli attori riescono comunque a mettere in fila delle prove ottime. Ma l’esperienza m’insegna che se si presta così attenzione alla recitazione, allora il film è deficiente in modo inequivocabile, non peraltro ma perché il Cinema è il Cinema e non Teatro filmato.
Io non riuscirò mai a spiegarmi perché per il cinema indipendente americano, autoriale, fa rima con depotenziato. Oppure c’ è un misunderstanding di fondo della nozione di minimale. Per cui minimale, o peggiore realistico, corrisponde a blando, grigio, asettico? Chissà, ma tant’è che la mia reazione a Martha Marcy May Marlene è molto simile al senso di incompleto, di non pienamente sviluppato, che ho provato vedendo Blue Valentine (2010). Ed è un peccato, puro e semplice. Così come è criminale la messa in scena della fine del film. Un errore di giudizio estetico così grossolano che dubito quasi ci si sia messo di mezzo qualche produttore idiota. Senza dare spazio a troppi spoiler, ma un anticlimax del genere non lo si vedeva da anni. Uno spreco che spezza il cuore.
Stefania Paolini