Sarebbe fin troppo facile tentare di omaggiare Martin Scorsese analizzando opere come Toro scatenato e Quei bravi ragazzi, probabilmente il punto più alto della cinematografia scorsesiana. Il mio tributo invece prende avvio da un ulteriore omaggio, quello a George Harrison fatto dal grande cineasta newyorkese, George Harrison: Living in the Material World (2011). L’elemento musicale in Scorsese ha sempre rivestito un’importanza fondamentale e ha accompagnato le sue storie e i suoi personaggi, oltre che la sua vita; il legame tra il suo cinema e la musica è evidente e palpabile sin dai primi lavori, dalla scena erotica di Chi sta bussando alla mia porta? in cui The End dei Doors fa capolino fino alla meravigliosa sequenza in Mean Streets in cui Malafemmena risuona in una bar durante un omicidio, passando per i documentari dedicati a Woodstock, Bob Dylan, Rolling Stones e altri importanti artisti del panorama internazionale. Potremmo ricordare la regia di L’ultimo valzer o del video musicale di Michael Jackson Bad o le suggestive musiche di L’ultima tentazione di Cristo, Toro scatenato, Quei bravi ragazzi e Casinò fino ad arrivare a The Departed, ma questa è tutta un’altra storia come direbbe Lucarelli. Questa volta è toccato a George Harrison, il terzo beatle, quello che viveva tra l’incudine – John Lennon e il martello – Paul McCartney, un’altra personalità complessa e travolgente a cui probabilmente l’immagine di icona adolescenziale andava stretta. Il documentario prende avvio proprio dall’incontro dei tre ragazzi, il trio Lennon – McCartney – Harrison, il quale chiaramente non sarebbe potuto durare a lungo. Nonostante siano stati in grado di dar vita a immensi capolavori, tre personalità di questo calibro avrebbero prima o poi reclamato il proprio spazio, cosa che già accadeva all’epoca dei Beatles, e preteso il salto di qualità. Era chiaro che anche George Harrison sarebbe andato oltre e sarebbe diventato qualcosa di più di un semplice beatle, sebbene essere una ammaliante figura mediatica non fosse facile.
L’obiettivo di Scorsese era proprio questo, riscoprire l’Harrison uomo e artista schiacciato da due personalità ingombranti e scomode come quelle di Lennon e McCartney e riesumare ciò che era nascosto dietro la maschera di icona pop attraverso le testimonianze degli amici più cari, dei suoi amori e dei familiari, usando però il sorriso, gli aneddoti più divertenti e i particolari mai raccontati; e che importa se l’amico di sempre Ringo Starr, il quarto beatle, nel ricordare la sua morte non sia riuscito a trattenere le lacrime. La prima parte del documentario è una full immersion nella vita e nelle abitudini del quartetto di Liverpool fino alla conversione spirituale di Harrison e l’inizio della sua carriera da solista. L’opera di Scorsese non è però solo un omaggio al chitarrista inglese e alla sua musica, ma è un curioso viaggio nella pop culture e nella percezione che la gente comune aveva del fenomeno Beatles, oltre che di George Harrison. Un viaggio all’interno di un immaginario collettivo alimentato dai media, in cui lo spettacolo, e dunque la musica, riveste un’importanza fondamentale, quasi sacrale. La trasformazione dei Beatles in punti di riferimento politici, religiosi e sociali, oltre che musicali, era quindi una conseguenza naturale. I pianti di ragazzine esaltate, l’emulazione dell’abbigliamento, del taglio di capelli e del loro stile di vita, i primi posti nelle hit parade e l’importanza delle loro canzoni per intere generazioni sono solo la punta dell’iceberg. L’impatto culturale è stato enorme e irreversibile, così come sono inarrestabili le conseguenze dell’avvento della società di massa.
La seconda parte del documentario è invece il naturale risultato di quanto è stato precedentemente detto. La scoperta da parte di Harrison del mondo spirituale e della meditazione probabilmente non è altro che la ricerca di sé stesso e l’allontanamento da un vortice mediatico che era in grado di trasformarlo in un’immagine potente e persuasiva. Il cantautore britannico ha però utilizzato gli stessi strumenti che hanno contribuito a renderlo un’icona pop per veicolare il suo messaggio e tutto quello che aveva imparato tramite la meditazione e i mantra, per cui non è andato molto lontano. Ha continuato ad essere quello che era già all’epoca dei Beatles e ha tentato di stare in equilibrio tra due mondi, quello spirituale e quello terreno, cercando in molte occasioni di fonderli insieme come dimostra quel Living in the Material World che, oltre ad essere il titolo dell’opera di Scorsese, ci riporta ad un suo album pubblicato nel 1973. George Harrison ha provato sulla sua pelle le gioie e i dolori delle società di massa, la soffocante presenza dei media e l’enorme influenza che può avere l’elemento spettacolare, ha tentato di riscoprire sé stesso e il mondo che lo circondava attraverso la meditazione e la musica orientale riuscendo a regalarci splendidi brani; quello che però ha imparato, e che dovremmo anche noi imparare, è che una volta che la cultura pop e i media prendono la tua anima è raro che te la riconsegnino integra. Se volete riscoprire anche voi Harrison recuperate questo piccolo gioiello il prima possibile.