New York, quartiere del Bronx.
Il macellaio italoamericano Marty Pilletti (Ernest Borgnine) ha 34 anni ed è ancora scapolo, come non mancano di rammentargli la sua clientela e l’anziana madre con la quale vive, mentre i suoi fratelli e le sue sorelle hanno messo su famiglia; timido e complessato per via della mole, ma affabile e di buon cuore, Marty si è ormai rassegnato alla solitudine, quando un sabato sera come tanti, vinte varie titubanze, si reca in una sala da ballo, dove conosce Clara (Betsy Blair), non propriamente bella, ma graziosa, affabile e sincera: tra i due scatta una certa empatia, parlano per ore, si lasciano con la promessa di Marty di telefonarle il giorno successivo; purtroppo al mattino l’insicurezza sembra avere la meglio, tra la gelosia della madre e gli sfottò degli amici, persi nei sogni di mannequin da rivista e facili avventure, ma a tarda sera ecco il nostro precipitarsi al telefono, lui sa bene ciò che desidera da una donna, al diavolo cosa pensano gli altri…
Classico piccolo grande film, oggi pressoché dimenticato, Marty è una pellicola da riscoprire e assaporare in ogni sua sfumatura, costituendo nell’ambito del cinema americano, allo stesso tempo, sia uno dei primi esempi di plot ricavato da quello di un dramma televisivo, autore in entrambi i casi Paddy Chayefsky, sia di tangibile attenzione alla realtà del quotidiano; la regia abbastanza ferma e attenta dell’esordiente Delbert Mann, privilegiando in particolare inquadrature lunghe, riesce infatti a visualizzare sullo schermo, in modo estremamente concreto, problematiche quali la solitudine e i rapporti con l’altro sesso, non tralasciando quelle relative all’integrazione tra culture diverse, vista l’ambientazione reale nell’ambito della comunità italoamericana, fotografata in un bel bianco e nero (Joseph LaShelle), senza calcare la mano su luoghi comuni ed ovvietà, avvicinandosi agli stilemi propri del nostro Neorealismo.
Pur nell’evidenza dell’origine televisiva, Mann riesce a dare importanza al fluire del racconto, semplicemente esponendo personaggi e situazioni, senza particolari implicazioni o derive psicoanalitiche, lasciando che si presentino nella loro spontaneità, valorizzata da buone prove recitative volte a rendere al meglio la genuina freschezza dei dialoghi (da preferire, se possibile, l’edizione in lingua originale), in particolare nell’esternazione dei sentimenti espressa dai due protagonisti, tra tenerezza e goffaggine, che assume inedite connotazioni romantiche, con un Borgnine, lontano dai suoi ruoli da “duro”, tutto da godere; sette nomination all’Oscar, vincendone quattro (miglior film, regia, sceneggiatura e attore, Borgnine), e Palma d’oro al Festival di Cannes.