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Martyrs

Creato il 28 settembre 2013 da Theobsidianmirror

Martyrs

È tipico di un certo tipo di religiosità cercare sempre un tramite per le proprie esperienze mistiche. Siamo talmente abituati ad avere intermediari nel nostro rapporto con Dio che il nostro senso della scoperta è ormai irrimediabilmente compromesso, e la smania di trovare conferme empiriche a questioni spirituali non conosce limiti: sacerdoti, santoni, guru, sensitivi e medium, non importa a chi ci rivolgiamo, l'importante è trovare qualcuno che riesca a confermare che non stiamo credendo invano, che la morte è solo un passaggio perché esiste un altro luogo dove possiamo vivere per sempre. Tutto ciò ha senz'altro a che vedere con la paura della morte insita dentro di noi, con il desiderio di rivedere ancora coloro che abbiamo amato e perso, e con molte altre cose. Tutte umanissime, per carità. Ma la fede? In tutto ciò, che posto ha? Io non so dirlo, ma tant'è.
A mio avviso, il significato di un film come " Martyrs" di Pascale Laugier (2008), l'horror francese che ha scioccato il mondo, sta tutto, o prevalentemente, qui. Se aveste la possibilità di gettare uno sguardo, anche indiretto, sull'aldilà, lo fareste?
"Martyrs" ha davvero rappresentato un punto di svolta. Non è certo il primo film catalogabile nel genere cosiddetto "Torture", ma ha saputo farlo in modo nuovo, sebbene pervaso di uguale pessimismo rispetto agli abissi oscuri dell'animo umano. Laddove in " Non aprite quella porta" la tortura ha una finalità antropofaga, in " Hellraiser" è il destino di chi incappa in creature di un altro mondo, in " Hostel" un business, in " Saw" un metodo di vendetta e in un film come " Five fingers - Gioco mortale " (che non è un horror, beninteso) uno strumento politico, in "Martyrs" non ha nessuna di queste caratteristiche. Esteticamente, non è mostrata in modo creativo né pensata per intrattenere, è una mera ripetizione di atti dolorosi e umilianti eseguiti con metodo e cadenza regolare, come un lavoro di routine, per ottenere il massimo impatto fisico e psicologico sulla vittima. Concettualmente, sembrerebbe asservita a uno scopo più alto, la ricerca di Dio. Ma è proprio così? Facciamo un passo indietro e incominciamo dalla trama. Non parlerò del valore del film, se girato e recitato bene o male, della sua coerenza narrativa, eccetera: non è lo scopo di questo post. Cercherò di dire abbastanza ma non troppo, confidando sul fatto che ormai, a cinque anni dalla sua uscita, chi avesse avuto intenzione di guardarlo l'abbia già fatto...

Francia. In una località non meglio precisata, la piccola Lucie viene rapita da ignoti, portata in un magazzino abbandonato e torturata, ma riesce a fuggire. La bambina viene ricoverata in un istituto, ma l'esperienza l'ha segnata profondamente, tanto da impedirle una vita normale: nonostante i tentativi del suo terapeuta di farle superare il trauma subito, continua a soffrire di allucinazioni derivati dal senso di colpa per aver dovuto abbandonare al suo destino un'altra bambina prigioniera insieme a lei, e l'unica persona con la quale riesce ad instaurare un rapporto è la sua coetanea Anna. Quindici anni dopo i fatti Lucie, convinta di aver trovato i suoi aguzzini, fa irruzione in una signorile villetta di periferia e massacra i suoi abitanti. Anna pensa che l'amica possa essersi sbagliata e, sconvolta dall'orrore, si accinge a far sparire i corpi e le tracce di quanto avvenuto, ma si deve ricredere: nei sotterranei di quella che all'apparenza sembra una normale abitazione scopre una vera e propria camera delle torture, e una donna segregata...
Fin qui non c'è nulla di davvero originale nella trama, che nella prima parte somiglia ad un revenge movie e solo a due terzi circa prende un registro diverso. Anna diviene l'ultima di una lunga serie di persone, in preferenza donne, che un'organizzazione clandestina, capeggiata dalla misteriosa " Mademoiselle", cattura per trasformare in "martiri". È a questo punto che il film si trasforma in un torture, fino allo scioccante finale; che è scioccante più che altro come concetto, perché in realtà i particolari più raccapriccianti ci vengono risparmiati. È una fortuna, ma anche così la visione del film è pesante, a tratti insostenibile.
Noi siamo abituati a parlare di martiri religiosi, ma ci sono anche i martiri ideologici, ovvero persone condannate o uccise a causa delle loro idee (come Giovanna d'Arco o la filosofa greca Ipazia), anche se forse in questo caso la locuzione è impropria: bisognerebbe piuttosto parlare di "eroi".
Quelli del film, però, sono un tipo del tutto diverso di martiri. Ma che cosa differenzia le vittime di tortura dai martiri? In un mondo come quello attuale in cui tutti, notiziari in testa, parlano per iperbole, e qualunque incidente di piccola portata diventa una "catastrofe" o un "cataclisma", probabilmente nulla. In realtà c'è una profonda differenza tra chi soffre e muore e chi soffre e muore consapevolmente. Tuttavia, questo ancora non basta: come evidenziato anche nel film, la parola martire ha un'etimologia ben precisa, perché deriva dal greco μάρτυς, che significa "testimone". Originariamente il termine non aveva l'accezione religiosa che gli è rimasta appiccicata con l'avvento del Cristianesimo, ma era un termine che veniva utilizzato prevalentemente in ambito giuridico e filosofico; solo in seguito acquisì il significato di testimone di un credo religioso tramite la vita, le opere e la predicazione del credente, e poi con le persecuzioni cristiane dell'Impero Romano prese ad indicare colui che, per scelta, testimonia la propria fede o ideale fino alla morte. Un tempo il martirio era la strada più sicura per la santità, e la storia del Cristianesimo è ricca di storie in tal senso, tanto da aver creato un vero e proprio culto dei martiri.

Le cronache ci narrano sia i martìri di anonimi fedeli che quelli di personaggi poi entrati di diritto nel calendario ecclesiastico e questo avviene fin dall'Antico Testamento. Nel terzo capitolo del libro di Daniele, per esempio, si narra la storia di tre ebrei che, per essersi rifiutati di prostrarsi davanti a un idolo d'oro, vengono gettati in una fornace. Più avanti, nel sesto capitolo, lo stesso Daniele sta per morire per difendere la sua fede perché viene gettato nella fossa dei leoni. Entrambi gli episodi hanno qualcosa in comune, e cioè il fatto che la mano di Dio interviene in extremis per salvare i suoi servi, facendoli scampare alla morte, ed è soltanto con i libri dei Maccabei che il martirio viene raccontato fino alla sua tragica conclusione: nel sangue. Uno dopo l'altro, sette fratelli (e per ultima la loro madre) vengono torturati orribilmente fino alla morte. Questa vicenda viene interpretata e ricordata come una eccezionale testimonianza di fede e come un modo per placare l'ira di Dio ed espiare i propri peccati. Da allora è stato tutto un pullulare di racconti al limite dell'esaltazione, in cui spesso i martiri non solo sopportano le peggiori torture senza batter ciglio, ma lo fanno pregando, cantando, irridendo i propri carnefici e incitandoli a infliggergli pene più terribili, in sprazzi di euforia ed esaltazione che non paiono avere nulla di naturale.

Nel film, però, si utilizza il termine martire nel significato originario di testimone: qui i martiri non lo diventano per scelta né per caso, ma perché qualcuno decide di torturarli, infliggendogli ferite fisiche inguaribili, fino alla morte. Si pensa che, quando la sofferenza diventa insopportabile, possa aprire le porte della percezione e permettere al moribondo, tramite uno stato di estasi mistica, di avere una visione dell'aldilà: del Paradiso, o qualunque cosa crediate che ci sia dall'altra parte... Non si tratta di esperienze di pre-morte, perché il soggetto è ancora vivo sebbene la sua coscienza si sia trasferita, anche se solo momentaneamente, o a sprazzi, su un altro piano della realtà. In altre parole, si potrebbe dire che un martire è colui che riesce a sublimare il dolore in qualcosa di più grande, di differente.
Il punto è: questo è davvero possibile? Come avere la certezza che le visioni di un moribondo siano autentiche e non siano solo qualcosa che la sua mente crea nello spasmodico tentativo di distrarsi da un dolore troppo grande, magari per effetto di una reazione chimica innescatasi nel suo cervello analoga a quella inducibile con sostanze allucinogene? La verità è che, come tutto ciò che riguarda la metafisica, anche questa è questione di fede.

Mademoiselle è affascinata dalle immagini di persone morenti nei cui occhi si vedono le tracce di un'estasi più grande del dolore. Occhi che sembrano spalancati sull'eternità, su qualcosa di invisibile per tutti gli altri, come gli occhi dei personaggi delle immagini a corredo di questo articolo. Guardate attentamente quegli occhi! Da cosa sono attratti? Che cosa scrutano? Che cosa vedono quelle persone sofferenti che a noi non è dato vedere? Forse Dio? Il Diavolo? Un luogo di riposo eterno, nella gioia o nel dolore, una spirale di esistenze da ripetere all'infinito?... il nulla? Non è bizzarro che tutti loro, nessuno escluso, nel climax del dolore gettino gli occhi verso un unico punto comune? Queste sono domande che possono davvero ossessionare.

Mademoiselle è convinta che quelle persone abbiano scoperto in extremis lo scopo ultimo della propria esistenza e il luogo al quale sono destinate, e spera di poter udire di prima mano il racconto di una di quelle esperienze. Non si tratta di sadismo, anche se potrebbe sembrare il contrario, e questo non fa che rendere l'idea più atroce: la perversione la posso anche concepire, anche se non accettare, ma il pensiero che qualcuno possa deliberatamente far del male a qualcun altro per supposti motivi filosofici, per cercare una scorciatoia per il Paradiso è difficile da digerire. La fede, qualunque essa sia, dovrebbe essere l'antitesi della crudeltà e del cinismo.

Lucie è solo una vittima. Come tutte le altre. È così facile creare una vittima, mia cara, così facile. Rinchiudete qualcuno in una stanza buia. Comincia a soffrire. Nutrite questa sofferenza in maniera metodica, sistematica e fredda. E che duri a lungo. Il vostro soggetto passa attraverso stati multipli. Dopo un certo tempo il suo trauma, questa piccola fessura così facile da procurare, gli fa vedere cose che non esistono proprio. [...] La gente non ha più intenzione di soffrire. [...] I martiri sono molto rari. Un martire, sì, è un'altra cosa. Un martire è un essere eccezionale. Sopravvive alla sofferenza, sopravvive alla privazione di tutto. Lo si carica dei mali della terra e si abbandona. Trascende. Si trasfigura.

Io sono convinto che le visioni che alcuni hanno in particolari circostanze, a prescindere da come le ottengono, non provengano dal nulla, ma siano una prova che il nostro cervello ha le potenzialità per avere accesso a stati di coscienza superiori; le esperienze trascendentali sono a portata di mano, se solo si sa come innescarle.
Quello che piuttosto bisognerebbe domandarsi è che importanza possa avere per noi la visione di qualcun altro: posto che un Paradiso esista, come facciamo a sapere che sia identico per ognuno di noi? L'ultimo quarto d'ora del film, con l'immagine di tutte quelle persone riunite insieme come per una veglia funebre, l'immagine della vecchiaia che sfrutta eternamente la giovinezza, mi ha riempito di una tristezza infinita. La morte aleggia su questo film, ma la nostra martire in un certo senso sembra molto più viva degli altri personaggi.
Non so se avrò mai il coraggio di rivedere "Martyrs", ma una cosa la so per certo: brutale e cattiva quanto si vuole, è un'esperienza che non riuscirò a dimenticare facilmente.


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