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Il pretesto per l’ennesima escursione nella storia religiosa è la pellicola che il regista americano Modine sta girando ed il cui titolo “Questo è il mio sangue” ripropone ancora una volta la riscrittura del Vangelo alla luce di una fede personale e lontana dalla lettura ufficiale di quegli avvenimenti. Fin da subito quindi il cinema di Ferrara è non solo un mezzo per raccontare storie di mala/fede, attraversate da personaggi sempre ai limiti della sanità mentale ,Binoche/Mary dopo poche scene entrerà in una crisi personale che la porterà ad allontanarsi dalle scene alla ricerca di Dio, oppure divorati da un male oscuro (Modine/Anthony Childress) dipendente dalla propria opera cinematografica e rinchiuso in una camera di proiezione la cui oscurità è foriera di un salto nel vuoto irreversibile), ma più che altro un modo per mettere in atto un espiazione riflessa e frantumata nei personaggi che occupano la scena. L’attrice pentita, il regista outsider, e poi ancora il giornalista televisivo interpretato da Forest Withaker, punto di raccordo e centro della storia, con una talk show televisivo che indaga sull’essenza di una religiosità di cui lui stesso sembra ignorare la sostanza, sono la trinità in cui si divide lo sguardo del regista. Una schizofrenia lucida e moderna, dilaniata dai problemi personali (il giornalista tradisce la moglie in attesa del suo bambino per poi cadere in prostrazione quando questa rischia di perderlo), ma ancora capace di allargarsi al mondo circostante: il cinema prima di tutto, affrontato anche alle radici attraverso le parole degli apostoli e di Mary che si interrogano sul significato del “vedere” e che alludono ad un estetica sempre in bilico tra il cuore e la mente, ma anche i media, al centro dell’attenzione per motivi di sceneggiatura e per un primato a cui anche la settima arte deve sottostare (è lì che succede tutto dice un personaggio riferendosi al potere persuasivo del mezzo catodico), per non parlare degli effetti disumani prodotti dalle intolleranze culturali, esposti in maniera impietosa con un pezzo di repertorio televisivo in cui un padre ed un figlio diventano le vittime innocenti di una guerra combattuta nel nome di Dio.
Insomma un Ferrara a tutto campo che continua il suo viaggio personale nei recessi dei propri tormenti (le riprese con Withaker che attraversa la città in uno stato di catalessi, evidenziata da uno sfondo sfocato e rallentato, sono il segnale di una realtà filtrata dallo stato d’animo del personaggio) riproponendo domande destinate a rimanere insolute. Il disagio generale tradotto con una forma continuamente reinventata- cinema classico nelle scene “religiose” e della vita di “Mary” si alternano a interviste giornalistiche la cui finzione è in qualche modo messa in dubbio dalla presenza di interlocutori che appartengono alla cultura del nostro tempo e le cui risposte potrebbero appartenere a vere e proprie lezioni specialistiche, per non dire degli inserti da cinegiornale- trova la sua linearità in una volontà che è disposta a tutto, anche a reinventare New York in una Roma assolutamente riconoscibile, pur di arrivare al nocciolo della questione. E come se Ferrara, da sempre riottoso ai teoremi istituzionali (il Vaticano accusato di disciplinamento culturale e psicologico è oggetto di un invettiva tanto veloce quanto definitiva), abbia scelto il tema evangelico e la vicenda di Mary, una fuoriuscita come lui, per tentare di tirare le fila del suo cinema ed insieme di ripartire, disfandosi di fardelli ormai metabolizzati (ed infatti il film successivo, “Go Go Tales”, sarà caratterizzato da una leggerezza inedita nella filmografia del regista). Trattato come un episodio interlocutorio anche dai fan più accaniti, Mary è in realtà cartina di tornasole di un cinema che non ha ancora deciso di abdicare.
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