Ieri pomeriggio, tuttavia, ho stappato una bottiglia di Poiema, la bottiglia marzeminica di Rosi, e mi sono ricordato di quella conversazione con Eugenio e delle parole di suo padre. Sarà che anch’io ieri, e pure oggi, sono un po’ acciaccato. So che sto per scrivere cose che hanno già scritto altri e meglio, e più competentemente, di me. Ma devo ammettere che la bottiglia di ieri mi ha riconciliato con il Marzemino e con la memoria della mia adolescenza da osteria, quando il vino era solo bianco e rosso.
Anno 2009, colore violaceo cupo e intenso, perfino macho, naso variegatissimo di viola e poi di frutta bosco, come la mora e il ribes, un’armoniosa sinfonia di fragranze silvestri rosse e nere in cui niente sembra fuori posto. Armonia, unica parola che saprei usare per descrivere la sensazione che ha riempite le mie narici. Nessuna punta fuori luogo, niente che possa minimamente disturbare. In bocca tutto questo si ripete e si moltiplica e si potenzia; hai la sensazione di un vino maschio, ma dolcemente maschio. Una leggerissima astringenza verde si combina alla morbida e accogliente e vellutata sensazione di un mazzo di violette su cui adagiarsi comodamente, mentre ti lasci rapire da evoluzioni speziate finissime. Insomma, penso che avesse ragione il padre di Eugenio: questa interpretazione del Marzemino più la mandi giù e più ti tira su. A me ieri, che ero piuttosto giù, ha fatto questo effetto. Grazie, caro Dio proletario del Marzemino.