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Leggere le oltre 600 pagine di “Massa e potere” di Elias Canetti è impresa titanica al pari della lettura di altri grandi saggi del Novecento. Personalmente il tentativo è andato in porto dopo un paio di approcci ma sul risultato ho dei dubbi e non credo di aver compreso in tutte le sue sfaccettature il reale significato dell’opera.
Di una cosa però sono certo: non so quanto ancora oggi sia valida l’analisi che Canetti fece delle masse e del potere durante gli anni cinquanta/sessanta. Intanto la decifrazione del “Potere” basata sulle posture di chi sta seduto o in piedi, sul gesto della mano che afferra, addirittura nell’osservazione della mimica del direttore d’orchestra non so se sia ancora valida oggi in epoca in cui il consenso mediatico si concretizza nella dimensione colloquiale dei talk show. Altrettanto si può dire per lo studio delle “Masse” divenute spettacoli d’ogni sorta nelle piazze piuttosto che conflittuali in riferimento al contesto e massa impalpabile attraverso il web.
Comunque rimane propedeutica la lettura di questo testo almeno nel sondare la sotterranea relazione che esiste tra individuo e massa e derivazione del potere. Canetti esplora un mondo che a noi moderni comuni mortali può apparire al rovescio giacché abbiamo concepito l’individuo come portatore di ordine, razionalità e progresso al contrario delle masse sempre viste come irrazionali e regressive. Questa prospettiva è completamente ribaltata dal filosofo che vede la massa come l’unico luogo in cui si concretizza la vera uguaglianza e l’umanità stessa. Canetti anziché il “singolo” ha come riferimento la “specie” e quindi non è l’individuo che forma la massa ma l’esatto contrario. Individuo e Potere quindi diventano sinonimi facendo acquisire così il significato di male assoluto al potere. Solo fondendosi nella massa l’individuo riesce a spossessarsi del suo “IO” e cancellare la paura ancestrale di essere “toccato”, il grumo in cui si alligna il potere stesso creando distanza fra gli esseri umani.
Sconcerta la lettura di questo libro in cui apparentemente Canetti usa un metodo anarchico per sondare l’alchimia delle masse; preferendo affidarsi alle immagini, ai simboli, alle narrazioni, l’autore zigzaga tra i vari saperi che spaziano dalla sociologia alla antropologia, dalla psicologia alla mitologia, dalla storia alla filosofia alla etologia. Si analizzano aggregati dell’umano sentire come la pioggia, il vento, il mare, la sabbia,le feste le epidemie e da qui ricavarne assunti per approdare alla validità della massa sull’individuo.
E’ vero, questo è un lavoro che ha assillato l’autore per oltre trent’anni elaborando un’ossessione nata in gioventù all’età di 17 anni quando al giovane Canetti studente a Francoforte nel 1922 capita di assistere a una manifestazione di protesta contro l’assassinio di Walter Rathenau (ministro della repubblica di Weimar) grande intellettuale liberal-progressista ebreo, ammazzato da sicari dell’estrema destra. Quella fiumana di persone che protestano sprigiona in Canetti un magnetismo che mai più lo abbandonerà: “Mi sarebbe piaciuto essere uno di loro, non ero un operaio, eppure quelle grida mi toccavano come se lo fossi. Il ricordo di quella manifestazione rimase vivissimo in me. Non riuscivo a dimenticare l’attrazione fisica, il violento desiderio di partecipare”. E poi nel 1927 l’altro episodio che lo porterà allo studio delle Masse e del Potere: Canetti è a Vienna, studente di chimica, quando legge sul conservatore Reichpost un titolo “Giusta sentenza” riferito all’assoluzione degli assassini di alcuni operai. Egli sente montare dentro di se una rabbia che non è indignazione civica da cittadino perbene, tantomeno livore ideologico; ma una reazione che lui definirà “animale” di fronte all’enormità dell’ingiustizia. In centro bruciava il Palazzo di Giustizia e la polizia sparò sugli operai facendo novanta morti. Scrive Canetti “Inforcai la bicicletta e volai in centro che era in tumulto. Sento ancora nelle ossa la febbre di quel giorno, mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva”. Due esperienze che lo abitarono per sempre come un tarlo, un sortilegio, un enigma.
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