Alla fine del XIX secolo, Gustave le Bon definisce la modernità come "l'epoca delle masse". La società, quindi, doveva fare i conti con il potere delle masse. Ma per le Bon, la ribellione delle masse portava sia alla crisi della sovranità che alla decadenza della cultura. (Più tardi sarebbe arrivato Ortega y Gasset con la sua massa e la sua minoranza, viste come classi distinte formate da persone, e non da classi sociali). Nel XXI secolo, secondo Hardt e Negri, la globalizzazione sviluppa delle forze contrapposte: da una parte, "l'impero globale", un ordine capitalista di dominio, slegato da territorio; dall'altra parte, la "moltitudine", una composizione di singolarità che comunicano fra di loro e che agiscono comunemente per mezzo della rete. La "moltitudini viene definita, da Hardt e Negri, come una classe capace di un'azione comune.
Ma parlare di classe, obietta Byung-Chul Han, ha senso solamente in un contesto di pluralità di classi, mentre appare come certezza che la moltitudine è l'unica classe, dal momento che ad essa appartengono tutti coloro che partecipano al sistema capitalista, ed in quanto l'impero globale non è affatto la classe dominante che sfrutta la moltitudine, perché oggi ciascuno sfrutta sé stesso, sebbene immagini di vivere libero. Questa logica del proprio sfruttamento rimane sconosciuta ad Hardt e Negri. Inoltre, l'impero propriamente non governa niente, ma costituisce il sistema capitalistico stesso. Oggi si rende possibile uno sfruttamento senza dominio. Così quello che oggi caratterizza l'attuale costituzione sociale non sarebbe la moltitudine, bensì la solitudine: una decadenza generale del comune e del comunitario, con la scomparsa della solidarietà.
Tornando alla "massa", quello con cui oggi abbiamo a che fare - scrive Han - è una transizione critica, di cui è responsabile la rivoluzione digitale: la nuova massa è lo "sciame digitale".
Lo sciame digitale - prosegue Han - si distingue dalla massa in quanto non è inerente ad alcuno spirito. Lo sciame digitale è costituito da individui isolati, ed è strutturato in maniera diversa dalla massa. Nella massa - continua Han, prendendo in prestito i concetti dell'anti-freudiano Elias Canetti - i singoli individui si fondono in una nuova unità nella quale non conservano alcun profilo proprio. La massa non era volatile, non era una concentrazione effimera, ma solida oltre che volontaria. Era determinata ad un'azione comune, ed una massa determinata ad un'azione comune genera potere.
Affinché la massa possa sussistere, e affinché prevalga il sentimento di uguaglianza fra tutti i suoi membri (le differenze fra gli individui si diluiscono nel perseguimento di una forza comune), bisogna che esiste un fine comune che sia al di sopra degli obiettivi individuali dei membri.
"Massa e potere", quindi. Ma lo sciame digitale manca di un'anima, di uno spirito della massa. L'erosione attuale del comunitario rende sempre meno probabile un'azione comune. Gli sciami digitali si dissolvono così velocemente come sorgono, non sviluppano energie politiche capaci di mettere in discussione le relazioni di potere dominanti. L'uomo digitale - come lo definisce Han - mantiene una sua identità privata, anche se, e quando, si presenta come parte dello sciame. Pur manifestandosi in maniera anonima, conserva un profilo. Invece di essere un nessuno, è un qualcuno. Un qualcuno anonimo. Anche il mondo dell'uomo digitale presenta una topologia distinta: gli sono estranei i luoghi di concentrazione di massa. Gli abitanti digitali della rete non si congregano. Costituiscono - dice Han - una concentrazione senza congregazione. Prima, i media elettronici congregavano gli uomini, mentre ora i media digitali li isolano. Lo sciame digitale, in contrapposizione alla massa, non è coerente in sé. Non si manifesta in una voce: perciò, viene percepito come rumore.
"La massa più silenziosa è quella dei nemici morti", chiosa Canetti a proposito della guerra.
Le ondate di "indignazione" che appaiono assai efficaci al fine di attrarre l'attenzione, non sono appropriate, a causa della loro volatilità, a configurare lo spazio pubblico, dal momento che per la formazione del "pubblico" si rende necessaria la "distanza" . scrive Han. Ed ancor meno sono appropriate a configurare il discorso pubblico. Mancano di quella stabilità, di quella costanza e di quella continuità, che sono indispensabili per un simile discorso. La società dell'indignazione è una società dello scandalo, manca di fermezza, di attitudine. La ribellione, l'isteria e l'ostinazione, caratteristiche delle ondate di indignazione, non permettono alcun dialogo, alcun discorso. La preoccupazione di ciascuno degli "indignati" è preoccupazione per sé stesso. La moltitudine indignata è fugace e dispersa. Manca di ... massa, di quella gravitazione necessaria alle azioni (secondo Canetti, la massa ama la densità). L'indignazione digitale non è capace né di azione né di narrazione, e non genera alcun futuro!
"Rispetto", scrive Han, significa guardare nuovamente indietro. Presuppone una sguardo a distanza, un pathos della distanza. Al contrario, oggi si dà luogo allo sguardo senza distanze, che è proprio dello spettacolo. La comunicazione digitale annulla le distanze, e la distruzione delle distanze spaziali va di pari passo con l'erosione delle distanze mentali. Il pubblico presuppone il distanziamento: distogliere lo sguardo dal privato è un movimento in direzione del rispetto. Mancanza di rispetto, mancanza di distanza nella quale l'intimità viene esposta pubblicamente ed il privato diventa pubblico. Il media digitale privatizza la comunicazione, disloca la produzione di informazioni dal pubblico al privato. Barthes ha definito la sfera privata: "quella zona dello spazio, del tempo, in cui non ci sono un'immagine, un oggetto". Oggi, già, non è possibile la sfera privata, non abbiamo nessuna sfera privata, perché non abbiamo alcuna zona in cui non vi sia una fotocamera, una videocamera. Allo stesso modo, la comunicazione anonima, fomentata dal media digitale, distrugge il rispetto. Anonimato e rispetto si escludono a vicenda: il nome è alla base del riconoscimento, cammina unito alla responsabilità, alla fiducia e alla promessa. E il media digitale, separando il messaggio dal messaggero, distrugge il nome.
Nella cultura della mancanza di rispetto e dell'indiscrezione della comunicazione digitale, sono possibili le "shitstorms" ("tempeste di merda"). La comunicazione digitale rende possibile un trasporto immediato di emozione, in quanto essa trasporta più emozioni di quanto ne possa trasportare la comunicazione analogica. Qui, il rispetto, come mezzo di comunicazione, esercita un effetto simile al potere: il rispetto impone distanza (non si investe una persona di rispetto con una tempesta di merda), tanto il potere quanto il rispetto esercitano un effetto di distanziamento. Le tempeste di merda indicano che viviamo in una società senza rispetto reciproco.
La comunicazione del potere non è dialogica, afferma Han. Il potere è una relazione asimmetrica. E il rispetto non è, per definizione, una relazione asimmetrica, anche se è possibile un rispetto reciproco che si basi su una relazione simmetrica. Il tessuto digitale favorisce la comunicazione simmetrica: ciascuno è mittente e destinatario, consumatore e produttore insieme. Questa simmetria pregiudica il potere. Il rifusso comunicativo distrugge l'ordine del potere. Il potere, come mezzo di comunicazione, si preoccupa che questo flusso scorra veloce in una direzione. La comunicazione del potere cerca di ridurre considerevolmente il brusio e il rumore, ossia, l'entropia comunicativa. Pertanto, brusio e rumore sarebbero un segnale acustico dell'incipiente decomposizione del potere.
Secondo Carl Schmitt, era sovrano chi decideva sullo stato di emergenza, ora è sovrano che ha la capacità di generare il silenzio assoluto, chi ha a capacità di eliminare qualsiasi rumore, di zittire tutti quanti insieme. E dal momento che la shitstorm costituisce un rumore comunicativo, dopo la rivoluzione digitale, bisogna riscrivere di nuovo la frase di Schmitt: "è sovrano chi comanda sulle shitstorms della rete".