Massimiliano Damaggio: SIAMO QUI PER QUESTO?

Da Narcyso
23 marzo 2014

Philippe Godard, CONTRO IL LAVORO, traduzione di Guido Lagomarsino, prefazione di Andrea Staid, Elèuthera, Milano, 2011

 di Massimiliano Damaggio

Sono un imprenditore. Ho una piccola azienda. Spendo molto in elettricità. Da domani, però, posso allacciarmi alla rete della nuova centrale nucleare e avere un considerevole risparmio. La domanda è: il denaro risparmiato andrà, almeno in parte, a chi lavora per me? E dovrò soffermarmi solo sul dato confortante della fattura oppure considerare quali altri costi, magari indiretti, dovrò pagare? Con questo esempio, introduco due temi fondamentali del libro di Philippe Godard: l’avidità e la “megamacchina”.

Ogni critica rivolta ad un aspetto importante, in questo caso fondamentale del nostro ordinamento sociale, non può essere tale, né credibile, né tantomeno argomentabile se si limita agli effetti e non alle cause. Godard si propone di smontarne tutti i tasselli che lo compongono. Il teorema dell’impalcatura è il lavoro, ma ancor più la sua significazione a scopo della vita delle persone. Il corollario è, di ritorno, che per negare il teorema Godard deve obbligatoriamente spingersi al radicale scardinamento del sistema economico e di produzione, e soprattutto delle sue presunte fondamenta. Il discorso parte da una considerazione banale: per vivere a lungo, tranquilli e ben nutriti bisogna che noi si coincida con lo scopo, che non è più mezzo, di lavorare per produrre, e quindi consumare per produrre? È quindi necessario, come scrive bene Latouche, per noi vivere

senza che la vita, per quanto prolungata, ritrovi una qualche pienezza. È solo sopravvivenza (?)

E poiché il succo è questo, Godard fa un’altra domanda, anch’essa semplice e così disarmante da risultare rivoluzionaria: “Siamo qui per questo?” Certo, questa è una critica, e delle più classiche, alla società consumistica ma ci porta ad un ripensamento di ciò che per noi sono lavoro, economia e significato di noi stessi. Ma c’è una piccola novità.

Oggi dichiararsi contro il lavoro e definirlo “inutile” e addirittura “nocivo” è chiaramente un’eresia, perché il lavoro oggi è Dio, e perché non sappiamo definire noi stessi in altro modo se non attraverso il lavoro. Senza lavoro non c’è nulla: denaro, cose, svago per il tempo libero. Lo stesso tempo libero è una forma di lavoro: consumare il lavoro altrui perché si possa produrne nuovamente. Senza il lavoro, e soprattutto senza la produzione, con cui è irrimediabilmente compromesso, non esiste identità individuale, né tanto meno collettiva. Senza il lavoro non ci sarebbe il progresso e saremmo costretti a sopravvivere come fanno le tante tribù di “selvaggi” nascoste negli angoli “oscuri” del pianeta. Nella splendida prefazione, Andrea Staid riporta una considerazione di Marshall Sahlins:[1]

Gli studi etnologici sugli attuali cacciatori e raccoglitori, specialmente quelli che vivono in ambienti marginali, indicano una media di 3. 5 ore giornaliere di produzione alimentare per lavoratore adulto. I cacciatori si attengono a un orario di banca notevolmente inferiore a quello dei moderni lavoratori dell’industria (sindacalizzati), che sarebbero ben felici di una settimana lavorativa di 21, 35 ore. Un interessante raffronto è anche proposto da recenti studi sui costi lavorativi fra gli agricoltori di tipo neolitico. Gli Hanunoo, per esempio, donne e uomini, dedicano in media 1200 ore annue alla coltura itinerante, cioè a dire una media di 3 ore e 20 minuti al giorno.

Là dove è rimasta, o è ancora concessa, la possibilità di accedere alle risorse, e dove ovviamente esse siano poi disponibili per natura, non troviamo né miseria né denutrizione. Il tutto, poi, condito dal fatto che questo lavoro, se così vogliamo chiamarlo noi che lavoriamo “sul serio”, è interrotto da frequenti riposi e non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo, tanto che donne e bambini ne rimangono spesso esclusi. La società “primitiva”, dice Pierre Clastres[2], funziona al di sotto delle proprie possibilità, intendendo che non arriva a produrre un surplus semplicemente perché non gli interessa. Non va oltre a ciò che gli serve per vivere.

È chiaro che Godard, per quanto scriva un saggio “tipico” di molta critica sociologica anarchica, si spinga oltre, introducendo una variante: la critica al concetto stesso di economia, con tutto ciò che ne segue. È il suo un discorso che si distacca da ogni pensiero politico, che sia capitalista, anticapitalista, marxista, anarchico della prima e della seconda ora (i cooperativisti alla Colin Ward), ma anche dai fautori della decrescita (Serge Latouche), perché tutti costoro ragionano in termini squisitamente economici. Sono, quindi, tutti d’accordo su cosa debba regolare la nostra esistenza: l’economia. Sia il capitalismo che i suoi oppositori hanno comunemente operato, nel corso degli ultimi centocinquant’anni, in direzione di un progresso declinato in termini di evoluzione meccanica dell’umanità, esaltando la “liberazione” dell’essere umano dalla natura “muta, cieca e crudele” con cui si deve solo lottare, e che bisogna dominare. La soluzione è stata il nostro sviluppo meccanico:

Marx, Bill Gates e Fukuyama sono tutti d’accordo per una volta![3]

Vi ricordate dell’imprenditore e della centrale nucleare? La risposta alla domanda non può che essere una serie di domande: siamo sicuri che la “megamacchina”, e cioè la società meccanicamente progredita e organizzata di oggi, mi dia più di quanto chieda? Ma cosa chiede di più, se sulla fattura la voce “costo” è diminuita? Considerando la cosa secondo un punto di vista meramente economico: il progresso genera molti più costi dei profitti che vorrebbe garantire. Una centrale nucleare, ad esempio, è l’insieme di tutto ciò che le permette di funzionare: lo smaltimento dei rifiuti radioattivi (spesso a dirette spese di chi non ne usufruisce); i pericoli ad essa connessi; l’organizzazione del controllo della zona stessa, ovviamente impegnativa (e dispendiosa) per logici motivi. Il “costo” è la distruzione dell’eco sistema. Su tutto si può comunque sorvolare, perché fermare il progresso significherebbe regredire fino a fare la fine dei “selvaggi”. O meglio: dover rinunciare all’agio. Il progresso è il credo di una società monoteista meccanica, e progredisce indipendentemente da tutto il resto. Non resta che adeguarsi. L’utopia, o la speranza, di liberazione dalla schiavitù del lavoro attraverso la macchina non fa invece che generare schiere di seguaci coatti che con le macchine non possono stare al passo:

Ogni macchina, ogni marchingegno, portano in sé il proprio superamento. Ma si tratta si un superamento di ordine meccanico; non è mai a vantaggio dell’umano.[4]

L’umanità scientificamente alienata[5] non può avvantaggiarsene perché non ne possiede la conoscenza. Non può interagire o programmare le macchine sui propri reali bisogni. E poi, in fin dei conti. non vogliamo nessuna emancipazione totale dalle macchine perché significherebbe abbandonare un comfort troppo allettante. In ogni caso, volenti o nolenti, ciò di cui stiamo parlando è progresso, perché:

il progresso è in tutto e per tutto la storia dell’idea che ne è stata elaborata (…). E la storia del progresso è in primo luogo la storia dell’idea che gli uomini si fanno sul proprio fine.[6]

Coincidendo il fine con il mezzo, e cioè la vita con il lavoro, tutto ciò lo si può con tranquillità definire “progresso”. Eppure, eticamente, o umanamente, non si può rimanere indifferenti di fronte alle sterminate masse di uomini “progrediti” dedicati alla produzione, da cui non possono in alcun modo estromettersi, né sono in grado di decidere della propria idea di “progresso”, e il cui unico fine è la riproduzione per perpetuare questo stato delle cose. E avere in cambio agio e cibo a sufficienza nelle brevi pause fra un momento di lavoro e il successivo.

Ancora peggiore è la situazione di chi è indotto in qualche modo a contribuire alla costruzione del “progresso” ma non può in alcun modo farne parte, a causa della propria condizione di miseria “pianificata”. Sono quelli che stanno fra i “selvaggi” e i “progrediti”: quella buona porzione di umanità che fatica, e spesso e volentieri non riesce a sopravvivere. L’economia è finalizzata a creare ricchezza ma organizza non tanto la disponibilità delle risorse quanto la sua scarsità, e lo deve fare per sopravvivere:

L’economia capitalista ha organizzato la scarsità tarandola sulla propria dimensione: prima in Europa e nelle sue colonie, e infine, oggi, nel mondo intero.[7]

Occorre forse ricordare che, all’alba di tutto ciò, i capitali necessari acché alcuni stati occidentali avviassero il proprio processo di industrializzazione, che li avrebbe più tardi portati a rappresentare, organizzare e imporre il progresso al resto del pianeta, non furono certo trovati arando i placidi campi del Lancashire. Ma che cosa è l’organizzazione della scarsità? In parole povere è la creazione di sacche di povertà da cui attingere lavoro o capitali grezzi. È la limitazione o la negazione di accedere alle risorse comuni per utilizzarle privatamente.

Stabilito lo scenario, la domanda successiva è: Ma noi che cosa vogliamo essere? O meglio: Ma noi vogliamo essere? Per rispondere bisogna smontare ogni sovrastruttura attualmente esistente, prima di tutto dal punto di vista teorico. Se consideriamo che dietro la struttura economica di oggi non c’è alcuna filosofia né alcun pensiero, ci assale lo sconforto. È certo più semplice confutare un’idea piuttosto che un leone. Perché di un leone stiamo parlando. Non avrebbe senso proporre un’ulteriore variazione all’idea di progresso come sviluppo meccanico ed economia. L’alternativa è negare entrambi.

Ma voglio riportare la vostra attenzione sul piccolo imprenditore e sulla domanda che ha generato da un lato la “megamacchina” e dall’altro l’avidità. Ora vorrei ricordassimo il caso degli speculatori finanziari che diedero il via nel 2007 all’attuale crisi finanziaria, e poi economica, mondiale. Perché ci meravigliamo e li condanniamo definendoli avidi? Ragionando come si deve quelle persone devono, semmai, essere portate ad esempio di come si applica correttamente la teoria per fare profitto. Devono essere premiate. In “piccolo”, abbiamo assistito alla creazione di una scarsità (le migliaia di lavoratori che persero il posto) per la produzione del profitto di una minoranza. Cioè la funzione dell’economia, e ancor meglio della finanza oggi. L’avidità è il movente per giungere in modo corretto al profitto. Senza avidità non può esistere profitto.

Conserviamo tuttavia (pare) un rimasuglio di etica che utilizziamo come maschera per coprire il nostro vuoto incipiente. Ci contraddiciamo spesso, ma in buona fede. È questo il vero dramma.

Nei giochi dei bambini la trasgressione alla regola comporta la fine del gioco. I bambini lo sanno per istinto. Basta osservarli mentre giocano per capirlo. Ma noi adulti, a quanto pare, non abbiamo più tempo di farlo.[8]

In qualche modo, sembriamo dotati di un substrato che resiste per un certo periodo, fino a che non viene estirpato oppure dimenticato. Murray Bookchin, nel suo “Ecologismo libertario”, da cui mi sembra Godard abbia molto attinto, sembra spiegare questa “anomalia” partendo da un interessante presupposto di carattere biologico:

Il conflitto in natura fra diversi tipi di organismi è stato correntemente espresso in frasi come lotta per l’esistenza e sopravvivenza del più adatto. Eppure alcuni hanno compreso che la mutua cooperazione fra organismi – la simbiosi – è altrettanto importante, e che “il più adatto” può essere quello che aiuta l’altro a sopravvivere. (…) A differenza delle zone temperate, bioticamente complesse, i relativamente semplici ecosistemi dell’Artico e dei deserti sono più fragili e si distruggono facilmente solo per la perdita di poche specie. La tendenza all’evoluzione biotica attraverso le grandi ere dell’evoluzione organica, si è indirizzata verso una crescente diversificazione delle specie e un loro concatenamento in relazioni complesse, formidabilmente mutualistiche, senza le quali la “colonizzazione” diffusa del pianeta da parte della vita sarebbe stata impossibile.[9]

Il che, così espresso, non è altro che una variazione del mutuo appoggio di Kropotkin. Da un lato l’aspetto scientifico, o meglio il suo esempio cui volersi rifare, dall’altro Godard che lo traspone, evidenziando il carattere libertario della sua scelta, come regola tacita di ogni comunità umana. Tutti i pensatori anarchici moderni, che sono soprattutto etnologi, sociologi e antropologi fanno leva su questo cardine fondamentale, la cui logica conseguenza è l’enunciato: Cooperazione e non competizione. Lo stesso non poteva che fare Bookchin, mettendo in discussione la teoria darwiniana del solo il più adatto va avanti e sopravvive, cerca di farlo biologicamente:

Quando la natura può essere concepita o come uno spietato mercato competitivo, o come creativa e feconda comunità biotica, ci si aprono davanti due correnti di pensiero e di sensibilità radicalmente divergenti, con prospettive e concezioni contrastanti sul futuro dell’umanità. Una porta a un risultato totalitario e antinaturalistico (cioè quello che stiamo vivendo ora, nota mia): una società centralizzata , statica, tecnocratica, corporativa e repressiva. L’altra, ad un’alba sociale, libertaria ed ecologica, decentralizzata, senza Stato, collettiva ed emancipativa.[10]

Ogni lettore, messo davanti alla demolizione di ciò che riteneva giusto e incrollabile può anche rimanere affascinato, e porre la domanda: Mi piace tutto questo, però adesso che facciamo? Ritengo che domande di questo genere siano del tutto inutili, perché com’è logico richiedono una risposta, e quindi una soluzione. Non esiste soluzione per ciò che è in continuo divenire. Esistono risposte in continuo divenire. Cristallizzare la vita in un programma è esattamente il problema che ci troviamo ad affrontare ai nostri giorni. E allora che facciamo? Proviamo a non agire.

Oltre al rifiuto della pratica dell’economia, con conseguente abbandono del lavoro inteso nella sua forma produttivistica il cui fine è lo scambio, e quindi il profitto, Godard dice: abbandoniamo il progresso meccanico e riprendiamo il nostro posto nella natura “selvaggia”, quella cioè non modificata dalle azioni umane. Non agiamo contro di essa. Non andiamo oltre, come fanno i “selvaggi”:

L’ideologia del lavoro ha subito un primo autentico scacco circa duemilacinquecento anni fa in Cina, quando i taoisti iniziarono a predicare il non-agire. Zhuang Tsu definisce così il non-agire: “L’uomo perfetto (…) si aggira senza scopo per il mondo polveroso e trova la sua libertà nella pratica del non-agire. Ciò significa che agisce senza aspettarsi niente e guida gli uomini senza costringerli”. (…) Il non-agire non costituisce un programma. Non implica proselitismo. È nella tensione individuale e collettiva che il non-agire spinge all’agire politico. (…) È tutto il contrario di un non-intervento sul mondo e sulla sua struttura. Non è un ritrarsi dal mondo, ma una critica in atto, nel mondo attuale, della produzione, del lavoro, di qualsiasi azione contro l’ambiente.[11]

Godard non propone un’ideologia o un programma ma una prassi che, di per sé, è l’unica rivoluzione che si possa fare.


[1]   Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1980, p.47

[2]   Pierre Clastres, Archeologia della violenza, La Salamandra, Milano, 1982, p. 118

[3]   Philippe Godard, p.41

[4]   Philippe Godard, p. 37

[5]   Philippe Godard, p. 60

[6]   Philippe Godard, p. 87 e 88

[7]   Philippe Godard, p. 42

[8]   Philippe Godard, p. 121

[9]   Murray Bookchin, Ecologismo libertario, Bepress, Lecce, 2012, p. 22 e 24

[10]  Murray Bookchin, p. 35

[11]  Philippe Godard, p. 118


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