Incazzato? Sì, sono incazzato. E come potrei non esserlo? Quando è nato, mio figlio ha azzerato tutti i miei progetti. Vivere con lui significa riprogrammarsi, reinventarsi ogni giorno. Ma una vita senza di lui io non sarei in grado neanche di ipotizzarla”.
Le parole sono di Massimiliano Verga, docente di Sociologia dei diritti fondamentali all’Università di Milano-Bicocca.
Quarantatré anni, milanese, ha scritto di recente “Zigulì” – La mia vita dolceamara con un figlio disabile” (Mondadori). Ho deciso di annoverarlo tra i tipi tosti per una ragione: ha raccontato la vita accanto ad un disabile senza ipocrisia.
Zigulì è, infatti, il diario di una giornata trascorsa in un parco del capoluogo lombardo con Moreno, suo figlio di 9 anni, che non parla e ha deficit cognitivi abbastanza seri. Il suo libro sta suscitando polemiche, perché quello che trasmette è un’esperienza irreversibile, cruda, ma vera. Un’esperienza che ogni giorno devi per forza accettare. Che non sai a chi attribuire. Che ti procura solo rabbia.
Per l’autore, che in quarantatre anni non ha ancora capito se crede in Dio, caricarsi ogni istante della disabilità di suo figlio, non è per niente semplice.
“Non so – dice – se esiste Dio. Quindi per me la nascita di mio figlio non è una ricompensa per un futuro celeste. Non ho mai neanche pensato che fosse una punizione. So solo che devo viverla e che non è come ce la prospettano i media. La realtà accanto ad un disabile è solo quella che conosciamo io e gli altri due miei figli quando chiudiamo la porta al mondo”.
Ma perché c’è ancora ipocrisia sulla disabilità e si stenta a sbatterla in faccia così com’è? “Guardi non lo so – replica il sociologo – Dico che è ancora difficile farlo. La disabilità oggi è quella che ci viene narrata da altri o quella che ci è più comodo vedere. C’è ancora l’idea che nei confronti di un disabile non si debbano usare linguaggi crudi. Come se i disabili fossero diversi”.
E chi, come il docente, prova ad usare linguaggi e paradigmi alternativi per accostarsi ad una realtà ancora sconosciuta a tanti – magari dando al proprio figlio il soprannome della caramella Zigulì, per indicare il suo cervello piccolissimo – passa per un cinico.
“Zigulì – chiarisce Verga – per me è un complimento, un gesto affettuoso, un soprannome condiviso nella mia famiglia, nato un giorno quando stavo portando i miei figli a scuola. In quel momento ho visto Moreno fare i primi passi con grande difficoltà. Ho pensato ad una caramella piccola e dolce. Le assicuro, allora ho riconosciuto Moreno a prescindere dalla sua disabilità. Mi chiedo perché non ci si possa raccontare il dramma, ridendo. Io cerco di rapportarmi a mio figlio così come gli altri padri si rapportano ai loro figli. Questo non cambia l’amore immenso che ho per Moreno”.solo questo conta
Cos’ è per lei la disabilità? “Non so cosa sia per me – risponde – so solo che vedo ogni giorno mio figlio, vedo cosa fa e cosa non riesce a fare. Vedo la sua sofferenza e combatto di continuo con la mia. Tante volte mi arrabbio perché non riesco a capirlo. E cosa c’è di più insopportabile per un genitore che non riuscire a comprendere le esigenze del proprio bambino? Sì, sono arrabbiato. Ma non sono arrabbiato con Moreno. Scrivendo il diario, mi sono tolto un sassolino dalla scarpa. Il fatto è che, al di là di tutto quello che penso io, c’è quello che prova mio figlio. E solo questo conta. E’ la sofferenza di Moreno che mi fa stare male. Questo, certo, non si può dire con certezza. Ma il fatto che non possa esprimersi, mi fa pensare che stia male. Mi chiedo: a cosa serve la sofferenza? Soffrire non è sempre la strada giusta per gioire. Rispetto pieno per chi crede, ma non è il mio caso,.Almeno per ora. ”.
Da tanta rabbia e da un immenso senso di impotenza, nasce, dunque, la scrittura irriverente del libro, che non significa assenza di rispetto e amore per Moreno.
“La mia rabbia – fa sapere – non è gratuita. Il diario mi è servito a gridare al mondo la mia sofferenza e quella di chi la prova come me, ma ha paura di dichiararla. Soffro perché mi sento piccolo come genitore, lo sono anche di statura. E dentro di me ho tante fragilità, tanti, ma proprio tanti dubbi”.
Ma chi ha dei dubbi, non crede neanche in Dio, non ha giustificazioni, come fa ad andar avanti? “E’ mio figlio – dice – Nella sua banalità questa è l’unica risposta che sono in grado di dare. Oggi non saprei più neanche immaginare una vita senza Moreno. Perché ci sono anche momenti di estrema dolcezza. Per esempio, quando gli cambio i pannolini, gli tolgo la cacca o gli do la pappa. Molte volte non vorrei essere lì, ma è allora che siamo io e lui. Soltanto io e lui. L’amore è anche crudo, poco piacevole. Ma c’è”.
Cinzia Ficco