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Massimo Lo Cicero su "Passione" di John Turturro

Creato il 05 novembre 2010 da Filmdifio

Propongo una lucida riflessione su "Passione" di John Turturro scritta dall'economista Massimo Lo Cicero per il quotidiano Il Mattino. Titolo: "La Napoli di Turturro, una storia troncata a metà del novecento. Speranze tradite ed errori riconosciuti". Fa pensare... Buona lettura.

Ho visto “Passione”: il film di John Turturro. E vi assicuro che al cinema sono, e rimango, solo uno spettatore. Non sono e non credo di essere un critico cinematografico. Ma, guardando e ripensando a quello che ho visto, posso dire con sicurezza che il film di Turturro mi ha raccontato una dimensione di Napoli assolutamente inedita, anche per me, che frequento questa nostra città, come cittadino e come analista delle dinamiche sociali, da molti decenni.

La Napoli di Turturro è un palcoscenico sul quale ritornano la dimensione onirica e le emozioni che quella dimensione deforma oltre la misura dei comportamenti personali: naturali od artefatti che siano.

Il canto, la recitazione, il ballo, la trasformazione della parola in simboli - che evocano e, quindi, nascondo la realtà deformandola invece di pretendere di spiegarla, come accade nei discorsi razionali - sono tutte attività che conducono nella dimensione onirica. L’anticamera od il succedaneo del sogno che, a volte, può diventare un incubo ma, altre volte, confina o si confonde con una sorta di estasi. Ci si culla nel sonno o ci si danna nell’angoscia evocata da un incubo: comunque stiamo dormendo, siamo fuori del mondo. Si dice che l’effetto di questa dimensione onirica della vita, per giunta recitata su un palcoscenico, dove anche i passanti sembrano figuranti od addirittura attori - anche perchè l’alchimia della camera cinematografica di Turturro riesce a farli diventare tali, svelando le potenzialità occulte del loro talento implicito – sarebbe la ragione per la quale questo film appartiene alla categoria stilistica del Barocco. Palcoscenico, deformazione delle strutture reali, e delle funzioni per le quali erano state create - cisterne per raccogliere l’acqua che diventano cattedrali oscure ed inquietanti - canto e smarrimento, il sogno nel mezzo della realtà, cioè la proiezione onirica della vita: che altro volete per parlare di Barocco? Ma Turturro non racconta, od almeno io non ho visto questo film, come un “genere letterario”. Francamente mi ricorda il neorealismo, per essere polemico e paradossale.

Il palcoscenico di Turturro sono sempre rovine, residui di una stagione imperiale e lontana, consumata dai secoli. Dall’impero romano, ed anche prima, ai domini di Francia e Spagna, alle monarchie normanne. Tempi lontani e remoti di cui non restano che rovine. Una storia interrotta che si conclude con la metafora della fine di una guerra mondiale, la seconda, che coincide con l’ultima eruzione del Vesuvio.

Anche il Vesuvio, la metafora della città, si spegne e rimane solo la cenere da spazzare, dai tetti e dalle strade. Qui sta la dimensione neorealista di Turturro, che non esclude il talento barocco con cui ci viene presentata, ovviamente. Non esistono, dopo il 1944, rovine: non esiste una civiltà che valga la pena di citare anche solo nella sua degradata manifestazione postuma. Non esistono le rovine perchè non c’era niente che potesse, corrompendosi, evocare il fascino di una grandezza remota sulla quale mettere in scena i fantasmi di una vita che sopravvive alla morte. Natura, la Solfatara, e rovine grandiose sono comunque la traccia di una vita che esisteva. E dopo nulla.

Questa interpretazione neorealista del film conduce ad una riflessione analitica importante. Per quanto errori abbiano fatto il centrosinistra di Valenzi e quello, successivo, di Bassolino, sembra proprio che il degrado di oggi non sia solo la loro logica conseguenza. Napoli ha smesso di esistere prima, proprio col dopoguerra.

Cutolo nella galera di Castel dell’ovo è l’unica eccezione che conferma questa regola. E, non essendo Cutolo un valore in se, c’è la conferma di una singolare idiosincrasia tra la stagione della democrazia, e della crescita, e questo singolare infarto che ha colpito una grande metropoli: un’antica capitale. Non si tratta di offrire oggi un alibi al centrosinistra, che giudico comunque una stagione di fallimenti ed arretramenti progressivi. E’ solo un modo per dire che la crisi c’era ben prima di Bassolino e del suo governo: che l’errore è stato proprio quello di non averla affrontata e ribaltata.

Ma, se si crede a questa lezione di Turturro, bisogna ripartire dal dopoguerra: sapendo che oggi è assai peggio di allora, per tanti motivi. Non ultimo che allora c’era una speranza. E che una speranza dichiaratamente e reiteratamente tradita è un pessimo inizio. Assai peggio della fine di un errore riconosciuto, come era, allora, consapevolezza diffusa nel dopoguerra.

Massimo Lo Cicero

Roma, 3 novembre 2010

Questo articolo è stato pubblicato il 4 di novembre 2010 su Il Mattino



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